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Dossier

Sul potere dell’intermediario di fissare il valore del bene restituito: nullità della clausola

A proposito di Abf Roma, n. 1644/2015

23 Luglio 2015

Livia Franco

ABF Roma, 6 marzo 2015, n. 1644 – Pres. Massera – Rel. Meli

Contratto di finanziamento – Restituzione del bene – Determinazione unilaterale del valore da parte dell’intermediario – Nullità della clausola

È nulla la clausola del contratto di finanziamento che prevede, per il caso di restituzione del bene all’intermediario finanziatore, il potere di quest’ultimo di determinare unilateralmente il valore del bene restituito al fine di riconoscere al cliente il ricavato della vendita del medesimo. Tale previsione, nella misura in cui non consente al cliente di conoscere in anticipo i criteri di effettuazione della valutazione, né di avere alcun diritto di informazione sulle concrete modalità di determinazione del valore di vendita, è da ritenersi senz’altro vessatoria.

*          *          *

1.- Nella decisione in esame l’Arbitro afferma la nullità della clausola del contratto di finanziamento che attribuisce all’intermediario il potere di fissare unilateralmente il valore del bene, che sia stato restituito per l’una o per l’altra ragione tra quelle contrattualmente previste[1].

Si tratta, nella fattispecie concreta, di un contratto di finanziamento per l’acquisto di un autoveicolo (stipulato contestualmente al finanziamento per l’acquisto della connessa polizza assicurativa). Dopo il regolare pagamento di oltre metà delle rate, la cliente – valutato il valore commerciale del bene e rassicurata da incaricati dell’intermediario circa il fatto che detto valore avrebbe coperto il debito residuo – decide di porre termine al rapporto di finanziamento in corso. Provvede, così, alla restituzione del veicolo; il verbale di consegna attesta l’assenza di vizi di rilievo.

Passato qualche tempo, l’intermediario intima alla cliente l’immediato pagamento dell’importo del finanziamento residuo. A seguito di una  richiesta di chiarimenti, l’intermediario comunica alla cliente di avere (successivamente all’intimazione) stimato il valore del bene, detraendo dal medesimo le spese per lavori di riparazione «non visibili alla consegna». E, dunque, provvede a una nuova intimazione al pagamento di una (minor) somma, comprensiva della detrazione del «valore netto» del veicolo.

2.- Ciò posto, l’Arbitro è chiamato a pronunciarsi sulla validità della clausola del contratto di finanziamento «che attribuisce unilateralmente al finanziatore la determinazione del valore del veicolo».

Secondo quanto emerge dal testo della decisione, tale clausola prevede, in via segnata, che, in caso di cessazione del rapporto di finanziamento (con la contestuale riconsegna del bene da parte del soggetto finanziato), il debitore sia tenuto a corrispondere all’intermediario il montante del debito residuo, detratto il valore del bene unilateralmente determinato dall’intermediario medesimo. Con la consegna del veicolo al finanziatore, cioè, il finanziato conferisce a quest’ultimo mandato irrevocabile a venderlo al meglio, senza alcun obbligo di rendiconto. La clausola, infatti, non determina ex antené i criteri di effettuazione della valutazione, né le modalità di concreta determinazione del valore di vendita del veicolo medesimo.

3.- Come è naturale, il problema circa la validità di clausole del tenore di quella oggetto della decisione in esame si pone con riferimento alle clausole di risoluzione (predisposte dagli intermediari) di tutti quei contratti che abbiano quale funzione propria, appunto, quella del finanziamento.

Nella prassi (in specie in quella dei contratti di leasing), le clausole di risoluzione per inadempimento del soggetto finanziato spesso prevedono l’obbligo del debitore di restituzione del bene oggetto del finanziamento e della corresponsione all’istituto di credito di una somma pari al residuo della somma complessivamente pattuita a carico dell’utilizzatore, maggiorato del prezzo previsto per l’opzione e detratto il ricavato dall’istituto di credito con la vendita del bene restituito[2]. Frequente è, altresì, la pattuizione di clausole penali che prevedono il pagamento dei canoni scaduti e a scadere, oltre interessi, dedotto quanto ricavato dalla vendita del bene.

Tali clausole non paiono dissimili da quella della decisione in esame. Nel caso in questione, come si è detto, l’intermediario – dopo avere riscosso 27 rate su 47 – pretende, a seguito della dichiarazione di risoluzione, la residua somma idonea a coprire (almeno) il nozionale del finanziamento, nonché la proprietà del bene finanziato, cui è attribuito un valore stimato unilateralmente dallo stesso intermediario.

4.- Una clausola così formulata è, secondo l’Arbitro, affetta da nullità ex art. 33, comma 2, lettera c, Cod. Consumo, come pure ex art. 33, comma 2, lettera p,Cod. Consumo.

Siffatta previsione, in effetti, nella misura in cui attribuisce al professionista-finanziatore il potere di determinare unilateralmente la misura del credito (pari al valore del bene, appunto) vantato dal consumatore nei propri confronti, «esclud[e] o limit[a] l’opponibilità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest’ultimo» (art. 33, comma 2, lett. c, Cod. Consumo),

Allo stesso tempo, la stessa previsione «conferi[sce] al professionista il diritto esclusivo di interpretare una clausola qualsiasi del contratto» (art. 33, comma 2, lett. p, Cod. Consumo): di attribuire alla medesima, in sostanza, il significato e il contenuto che ritiene più opportuno.

5.- L’Arbitro lascia in sospeso il punto inerente la validità di questa clausola, ove contenuta in un contratto non soggetto alla disciplina del Codice del Consumo; si tratta di punto, però, facilmente estensibile.

In effetti, al di là dei confini del Codice del consumo – pure a volere prescindere, cioè, dalla qualificazione dei contraenti quale «professionista» e «consumatore» – una clausola così congegnata potrebbe comunque risultare affetta, sotto diversi profili, da nullità.

Prima di ogni altra cosa, tale clausola, oltre a «genera[re] un indubbio squilibrio tra la posizione del cliente e quella del finanziatore che potrebbe essere ritenuto “significativo” ai sensi dell’art. 33 del codice del consumo»[3], difetta del requisito di determinatezza e di determinabilità di cui all’art. 1346 c.c.

Come è noto, tale requisito (: quello della determinatezza o determinabilità dell’oggetto) «esprime un’elementare esigenza di concretezza dell’atto contrattuale, e cioè l’esigenza che le parti sappiano fondamentalmente qual è l’impegno che assumono»[4]. Affinché una previsione contrattuale, se non determinata, sia qualificabile almeno come determinabile, è dunque necessario che siano «indicati, o, comunque, appai[a]no sicuramente identificabili, i criteri in base a cui fissare le modalità o la quantità delle prestazioni; oppure sono previsti i procedimenti, o gli atti, attraverso cui possa pervenirsi ad un siffatto risultato»[5].

Ne deriva, per quei contratti che prevedano la valutazione del bene da parte del creditore in un momento successivo alla conclusione del contratto, che questa esigenza non può ritenersi soddisfatta se le previsioni contrattuali non consentono alle parti (e, in specie, al debitore) di conoscere ex ante i criteri di valutazione del bene e, per l’effetto, di verificarne il loro effettivo rispetto.

Non si può non rilevare, d’altro canto, che «la nostra tradizione esclude (…) che la determinazione del rapporto sia rimessa all’arbitrio della parte»[6]; e ciò, a fronte dell’esigenza di «tutelare la parte contro le sorprese di una determinazione interessata»[7].

6.- Le regole di carattere generale applicate dall’Arbitro nella decisione in esame non si discostano, a ben vedere, da quelle di recente enunciate dalla Cassazione in materia con riferimento alla validità di clausole che prevedono la stima del bene oggetto del contratto da parte di uno dei contraenti. In via segnata, la Suprema Corte ha affrontato lo specifico tema della determinazione del valore del bene finanziato e (poi) restituito con riferimento al contratto di lease-back[8].

Come è noto, la liceità di tale contratto (: mediante il quale un soggetto venditore-utilizzatore vende un proprio bene a una società acquirente-concedente, la quale poi lo concede in locazione al primo) è sempre stata misurata con riferimento al patto commissorio. La causa concreta del lease-back, infatti, rischia facilmente di sostanziarsi nell’elusione del divieto di cui all’art. 2744 c.c.[9]

Ebbene, la Corte di Cassazione ha affermato che l’illiceità del contratto di lease-back è scongiurata dalla previsione, nel medesimo, del c.d. patto marciano: di una clausola contrattuale, cioè, «con la quale si mira ad impedire che il concedente, in caso di inadempimento, si appropri di un valore superiore all’ammontare del suo credito, pattuendosi che, al termine del rapporto, si proceda alla stima del bene e il creditore sia tenuto al pagamento in favore del venditore dell’importo eccedente l’entità del credito». In questo modo, prosegue la Corte, si riconosce la «ragionevolezza commerciale dell’operazione per entrambe le parti».

Nella prospettazione della Cassazione, «la cautela marciana riesc[e] a superare i profili di possibile illiceità del lease-back» in quanto preveda, «al termine del rapporto, la stima del bene oggetto di garanzia quale presupposto del consolidarsi dell’effetto traslativo iniziale, evenienza che si verificherà qualora il valore del bene sia equiparabile all’importo del credito inadempiuto (…) mentre, ove tale importo sarà inferiore, verrà quantificata la differenza e sarà pagato un prezzo aggiuntivo al debitore, quale condizione del consolidamento dell’effetto traslativo».

Parte della dottrina[10], invero, ritiene che una clausola così congegnata – così come diffusa nella prassi dei contratti di leasing – sia da ritenersi una semplice «clausola di vendita», volta a perseguire il medesimo effetto riequilibrativo della clausola marciana, ma non identificabile con la struttura del patto marciano: «in quest’ultimo, peraltro, la dazione al debitore dell’eccedenza di valore del bene rispetto al credito potrebbe sancire il definitivo passaggio della proprietà del bene in capo al creditore, mentre la (possibilità di decidere la) vendita del bene ad opera del creditore presuppone un effetto traslativo determinatosi e altresì consolidatosi già al momento dell’inadempimento del debitore»[11].

7.- Nella sentenza del 28 gennaio 2015 l’accento viene dunque posto dalla Corte proprio sul contenuto della clausola contrattuale che prevede la stima del bene restituito da parte del finanziatore.

Sulla falsariga di altre fattispecie (art. 1851 c.c., art. 1982 c.c., art. 2798 c.c., art. 2803 s. c.c.) previste dall’ordinamento, che permettono «la realizzazione coattiva dei diritti del creditore, purché sia tutelato il diritto del debitore a pagare al creditore quanto in effetti gli spetti», la Corte statuisce che, affinché una clausola di risoluzione per inadempimento così congegnata possa essere ritenuta valida, la stessa deve contenere «meccanismi oggettivi e procedimentalizzati che (…) permettano la verifica di congruenza tra valore del bene (…) ed entità del credito».

Il procedimento volto alla stima del bene deve prevedere, cioè, «tempi certi e modalità definite», che assicurino la presenza di una «valutazione imparziale in quanto ancorata a parametri oggettivi automatici». In alternativa, tale valutazione dovrà essere affidata a «persona indipendente ed esperta la quale a detti parametri farà riferimento (cfr. art. 1349 c.c.), al fine della corretta determinazione dell’an e del quantumdella eventuale differenza da corrispondere all’utilizzatore». In ogni caso, «l’essenziale è che risulti, dalla struttura del patto, che le parti abbiano in anticipo previsto che, nella sostanza dell’operazione economica, il debitore perderà eventualmente la sua proprietà per un prezzo giusto, determinato al tempo dell’inadempimento, perché il surplus gli sarà senz’altro restituito».

Con la recente modifica della disciplina del prestito vitalizio ipotecario (legge 2 aprile 2015, n. 44), il legislatore ha ribadito la contrarietà all’ordinamento di clausole che attribuiscano unilateralmente la facoltà di determinazione del valore del bene oggetto del finanziamento. Con questo intervento legislativo è stato infatti previsto che, nel caso di mancato rimborso integrale del finanziamento entro una determinata scadenza, «il finanziatore vende l’immobile ad un valore pari a quello di mercato, determinato da un perito indipendente incaricato dal finanziatore, utilizzando le somme ricavate dalla vendita per estinguere il credito vantato in dipendenza del finanziamento stesso» (art. 11-quaterdecies d. legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248).

 


[1] La decisione non è univoca nella descrizione della fattispecie concreta sottoposta al Collegio; non è chiaro, cioè, se la clausola contrattuale oggetto della decisione medesima (infra, n. 2) sia quella di estinzione anticipata o quella di risoluzione per inadempimento.

[2] Su clausole di siffatto tenore – da ritenersi nulle anche per violazione dell’art. 1526 c.c. – cfr., di recente, ABF Roma, 5 dicembre 2014, n. 8227 e ABF Roma, 12 dicembre 2013, n. 6492.

[3] Così la decisione in commento.

[4] Bianca, Il contratto, in Diritto civile, 3, Milano, 2000, p. 327.

[5] Gabrielli, L’oggetto del contratto, sub. artt. 1346-1349, in Il codice civile. Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 2001, p. 99.

[6] Bianca, cit.

L’estraneità al nostro sistema di clausole che attribuiscano a una delle parti un arbitrario potere di determinazione del contenuto delle clausole contrattuali si evince, tra le altre cose, dalla disciplina del ius variandi (bancario). Nel nostro sistema, in effetti, «l’apertura del potere di variazione unilaterale della banca si organizz[a] intorno al perno fondamentale della necessaria presenza di un “giustificato motivo” a supporto; il potere di variazione libera rimane sempre fuori dalla porta, dunque; in dati casi, che sono comunque abbastanza contenuti, invece, il potere di variazione unilaterale resta escluso oppure molto ridotto» (Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, p. 182).

[7] Bianca, cit.

[8] Cassazione 28 gennaio 2015, n. 1625.

[9] Cfr., per tutti, Cassazione 16 ottobre 1995, n. 10805.

[10] Natale, Lease-back e strutture utili di patto marciano, in corso di pubblicazione.

[11] Natale, cit.


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