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Editoriali

Considerazioni non giuridiche sulla riforma del Credito Cooperativo

15 Febbraio 2016

Giuseppe G. Santorsola

Professore Ordinario di Corporate & Investment Banking e Corporate Finance, Università Parthenope di Napoli

Di cosa si parla in questo articolo
BCC

1. Una premessa indispensabile

Le considerazioni esposte in questa nota originano non solo dal testo, ancora probabilmente non definitivo, del Decreto Legge sulla Riforma del Credito Cooperativo, quanto anche, con qualche semplificazione rispetto all’attuale stato della normativa, dalla scelta ormai palese del Regulator Comunitario verso un Codice Europeo del Diritto Bancario. Ne sono una prova la continua predisposizione di direttive europee che regolamentano in modo progressivo la disciplina del’attività bancaria, assicurativa e finanziaria in modo ormai coordinato, impattando in ogni contesto nazionale in modo differente alla luce delle precedenti strutture normative che rispondono peraltro a modelli strutturali che subiscono modifiche di grande rilievo, con prospettive ancora non sperimentate nelle conseguenze che determineranno.

In questa ottica il segmento del credito cooperativo subisce l’impatto più ampio perché ne viene messa in discussione la natura costitutiva e la possibilità di recepire senza trasformazioni di fondo la propria filosofia economica che ne aveva determinato l’origine. Di fronte a questo scenario la cooperazione di credito e il credito cooperativo hanno riscontrato le maggiori difficoltà nell’armonizzare le loro governance caratteristiche con l’impianto prevalentemente dedicato alle banche ordinarie costituite in forma di società per azioni. La medesima evoluzione era intervenuta negli anni ‘90 con le prime direttive ed il loro impatto sulle banche pubbliche e le Casse di Risparmio. In tal senso, il settore delle BCC – in positivo e in negativo – arriva per ultimo alla sua riforma dopo aver registrato in quegli anni la sua armonizzazione con il resto del sistema (tramite il TUB 385/1993) e la riduzione a metà delle proprie unità operative (passate da 754 nel 1980 a 371 all’1 febbraio 2016).

Un’ulteriore considerazione necessaria impone di considerare la sequenza dei vincoli che caratterizzano l’attività bancaria alla luce del complesso delle normative in vigore o in attuazione: la trasparenza, la gestione del rischio, la correttezza, la sana e prudente gestione, la durata adeguata degli incarichi, la gestione dei conflitti interesse, il divieto di interlocking, le sanzioni, le rimozioni degli organi sociali, la esternalizzazione di funzioni aziendali. Giungere alla riforma era inevitabile, selezionare soluzioni più efficaci era forse possibile.

Infine, è doveroso sottolineare che si tratta di un’analisi iniziale dei contenuti e dei riflessi della eventuale approvazione in questa veste, riservando a successivi interventi l’approfondimento di altri al momento in attesa dei Regolamenti della Banca d’Italia e dei decreti del MEF.

2. L’inquadramento del decreto e le condizioni previste o prevedibili

La riforma delle BCC rientra in un Decreto Legge di 19 articoli, occupandone solo i primi 2 per quanto con contenuti molto articolati che coprono di fatto circa un terzo della lunghezza complessiva del testo. Il primo articolo espone le modifiche al TUB intervenendo dall’articolo 33 fino al 37 introducendone un -bis e un -ter e modificando gli articoli 150bis e ter. Il secondo articolo disciplina invece le disposizioni attuative, dovendo definire i tempi e i modi che conseguono dai due nuovi articoli 37bis e ter. Inoltre, sono definite le procedure per l’attuazione del Gruppo Bancario Cooperativo o per la rinuncia con trasformazione.

Fermo restando che la valutazione del testo avviene senza conoscerne la versione definitiva pubblicata, si evidenziano i seguenti aspetti meritevoli di analisi, critica e considerazione dell’impatto nelle modifiche del TUB:

  • la definizione del Gruppo Bancario Cooperativo (GBC) in forma di s.p.a. (art. 33 + 37bis e ter);
  • la modifica dei requisiti previsti per i soci (art. 34 e 37bis);
  • la previsione della trasformazione delle BCC non aderenti a GBC in s.p.a . (art. 36 e 37ter).

In merito al GBC, il tema più discusso e discutibile concerne la eventualità che si confrontino in futuro sul mercato più unità, oppure se sia possibile costituirne e riconoscerne uno solo. Premesso che, secondo la Banca d’Italia sussiste il rischio che la concorrenza fra gruppi spinga a selezionare come propri membri soltanto le BCC più solide e redditiziee che io sono invece favorevole (anche in un precedente articolo in questa rubrica) alla seconda soluzione, ritengo che essa sia anche proponibile alla luce del testo proposto in quanto:

  • l’art. 1 – comma 1 – lettera a) parla di “adesione a un gruppo cooperativo);
  • l’art. 1 – comma 4 –lettera c) prevede “in caso di esclusione da un gruppo cooperativo”;
  • l’art. 1 – comma 5 – lettera a) espone i criteri di composizione senza mai prevedere esplicitamente una soluzione unica:
  • l’art. 1 – comma 7 – lettere b) e c) indicano requisiti minimi, ad evidenza per disciplinare la potenziale presenza di più GBC;
  • l’art. 1 – art. 37ter indica con chiarezza “la banca che intenda assumere il ruolo….), assegnando alla Banca d’Italia l’onere della verifica dei requisiti e l’idoneità del progetto.

Da quanto esposto resto convinto che il decreto consenta la creazione generica dei GBC senza imporre, come ipotizzavano talune proposte originarie, il Gruppo Unico. Resta fermo il requisito di capitale di un miliardo di euro che può risultare consistente freno per iniziative di aggregazione alternative a quella gestita a livello centrale da ICCREA, ma la struttura del segmento evidenzia la presenza di numerose entità aziendali adeguatamente capitalizzate per partecipare alla creazione di un GBC. Questa soluzione si ricollega alla proposta, presentata in un precedente articolo, finalizzata alla creazione di un numero ridotto ma non minimo di holding (i GBC) al fine di rappresentare linee strategiche distinte (per quanto cooperativistiche e mutualistiche). Ulteriormente, si ricollegano a questa impostazione le ipotesi di gruppo cooperativo bancario regionale, successivamente superate da ipotesi più trasversali.

Resta non prevista la fattispecie che alcune BCC, minori e deboli patrimonialmente, risultino escluse dai diversi progetti perché non coinvolte o rifiutate, non essendo apportatrici di valore aggiunto; non possiamo immaginare il ruolo di assorbitore di ultima istanza da parte di un GBC, né prevedere che il progetto possa partire indebolito dovendo trascinare nella sua evoluzione le aziende prive di una prospettiva. La soluzione multipla esclude i soggetti privi una propria ragione economica di sopravvivenza, ma anche il modello unico fallirebbe nei suoi intenti se accettasse tutte le partecipazioni, dovendo scontare l’ipotesi più che realistica che alcune delle migliori si escluderanno in ogni caso, o costituendo insieme ad altre ulteriori GBC o trasformandosi, da sole e con fusioni, in s.p.a.. In questa lettura il progetto sembra fallire in uno dei suoi obiettivi principali, correndo il rischio di perdere in poco tempo – probabilmente – alcune decine di entità.

Per quanto concerne la nuova struttura delle BCC (art. 34) concordo sulla crescita del numero minimo dei soci (500 invece che 200) e sul raddoppio (100.000€ in luogo di 50.000€ della quota massima individuale, nonché sulla scissione dei ruoli di socio e di azionista (anche magari attraverso l’utilizzo – peraltro previsto per i GBC – delle azioni di finanziamento descritto nell’articolo 1, comma 7 che modifica l’articolo 150ter del TUB). Tuttavia, mi chiedo l’utilità di tale previsione essendo plausibile che non sarà più possibile o strategicamente utile dar vita a nuove BCC, dovendo esistere o GBC, oppure ex-BCC trasformate in s.p.a.. Resta l’ipotesi potenziale, ma difficilmente “economica” di costituire nuove entità avendo come condizione sospensiva l’immediata adesione a un GBC che ne accetti la partecipazione. Dal punto di vista delle soluzioni possibili nella applicazione della fase transitoria supposta dal decreto, invece valuto l’utilizzo di tale meccanismo per impostare aumenti di capitale di BCC attuali per conseguire dimensioni che consentano attraverso aggregazioni di conseguire i requisiti per pervenire alla creazione del GBC acquisendo nuovi soci (ma la prevalenza delle BCC operative ha già più di 500 soci, salvo rare eccezioni, essendo la media puramente statistica italiana oltre le 3250 unità).

Dal punto di vista delle soluzioni alternative al GBC invece, il testo del decreto sembra proporre alcune interessanti opportunità, pur dovendo valutare l’obbligo della devoluzione del patrimonio e l’introduzione del tributo (tassa o imposta) del 20% su quest’ultimo per regolarizzare la trasformazione con abbandono dell’agevolazione di esenzione connessa alla natura cooperativa delle BCC con relativa esenzione dal reddito di impresa.

La soluzione più agevole ed esplicitamente esposta nel testo è quella concessa alle BCC con più di 200mln€ di patrimonio, una soluzione che coinvolge (secondo i dati disponibili) da 10 a 20 BCC (14 al momento secondo dati Mediobanca al 31.12.2014 (*)). Nulla esclude peraltro, nel dettato dell’articolato, che nel periodo transitorio singole BCC con patrimonio inferiore possano fondersi fra di loro (o che una maggiore acquisisca una o più minori) in modo da trasformarsi successivamente in s.p.a., disponendo del requisito. Con questa soluzione tra l’altro, risulterebbe più agevole rispettare la previsione del comma 7 , alinea c) dell’art. 1 che dispone (su indicazione del MEF) il numero minimo di banche aderenti a un GBC per rispettare i requisiti prudenziali, la diversificazione e il frazionamento dei rischi, un’ipotesi che rende impraticabile la creazione di GBC con il contributo di poche BCC o di entità minori che contribuirebbero al numero, ma non alla ripartizione dei rischi.

Residua una terza ipotesi che prevede la cessione del ramo d’azienda bancario da parte di una o più BCC con conferimento dello stesso ad una Newco Bancaria che acquisirebbe la/le licenza/e, sarebbe una s.p.a., avrebbe come soci prevalenti aziende cooperative (non più BCC) potendo conservarne lo spirito e le finalità e dovendo valutare sotto un profilo giuridico che non mi compete (salvo suggerimenti tecnici) se debba comportare il versamento tributario del 20% restando mutualistico il fine dell’azione bancaria della Newco.

Non è compito di queste note ipotizzare quali e quante BCC potrebbero rinvenire coerente con le proprie strategie adottare una di queste tre soluzioni. Si tratta di verificare se le valutazioni esposte da taluni membri del segmento cooperativo durante il 2015, si concretizzeranno oppure rientreranno a seguito della predisposizione del decreto in oggetto.

Secondo le indicazioni suggerite dalla Banca d’Italia nella fase di progettazione del decreto, invece, specularmente alle condizioni di entrata (opting-in), un punto cruciale della riforma è quello dell’opting-out, le condizioni alle quali una BCC può uscire dal settore del credito cooperativo.

Nell’ordinamento vigente le BCC sono cooperative a mutualità prevalente e possono trasformarsi solo in caso di fusione con banca di altra categoria, ma la BCC è tenuta a devolvere il patrimonio, accumulato in regime di esenzione da imposta sui redditi, ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. La Corte costituzionale, ha più volte ribadito che la devoluzione alla mutualità evita che i vantaggi fiscali riservati alla cooperazione mutualistica vadano a beneficio di un’attività priva di questo carattere o siano fatti propri dai soci.

Una tale scelta è di fatto ispirata all’esigenza di bilanciare la libertà d’iniziativa economica con la tutela della cooperazione mutualistica. A questi stessi principi, e a quello della tutela del risparmio, si è conformata la scelta che il decreto, in attesa del legislatore, ha predisposto con la riforma con la nuova, forse inattesa, eccezione prevista per le banche cooperative con patrimonio superiore ai 200mln€.

3. La scelta di aderire

Nonostante le alternative individuate nel precedente paragrafo, la finalità del decreto legge sono quelle di conseguire la creazione di un GBC con le potenzialità di occupare una posizione di rilievo nel mercato italiano, certamente per distribuzione territoriale e sportelli e – in misura minore – anche per raccolta, impieghi e patrimonio. Tuttavia l’assenza del vincolo obbligatorio e la esplicita previsione di alternative, nonché la possibile interpretazione di norme comunque non esplicite, lascia aperte alternative e propone, per paradosso, l’ipotesi di una debolezza strutturale potenziale per assenza di alcuni protagonisti non disponibili e per presenza di altri soggetti invece disponibili anche a motivo della propria debolezza. Questo scenario potrebbe suggerire a BCC complessivamente indotte a partecipare al GBC “di categoria”, di rivedere la propria scelta, soprattutto se si concretizzassero alternative più legate a scelte strategiche di più “pura impresa”.

In questo senso è necessario sottolineare uno dei punti più controversi (almeno nella mia valutazione gestionale) del testo è cioè l’impossibilità del recesso dal GBC da parte di una BCC aderente (art. 37bis, comma 3, alinea d). Tale aspetto deve essere verificato qualora vi fossero più GBC, in quanto lo spirito della norma è quello di non consentire l’esistenza di BCC non aderenti (art. 33, comma 1, alinea 1 ter), ma non quella di prevedere lo spostamento da un gruppo all’altro, il che contrasterebbe con principi generali della libertà d’impresa.

In questo contesto è invece opportuno ricordare che, al momento dell’adesione al Gruppo della propria BCC, i soci possono esercitare la propria azione di recesso, in eccezione ai consueti vincoli sul patrimonio delle società cooperative ed in considerazione della rilevante modifica intervenuta nella loro condizione rispetto alla scelta originaria, come accadeva nei frequenti casi di fusione fra BCC e CRA degli ultimi anni. Peraltro, i dati statistici disponibili dimostrano un utilizzo storico invero ridotto di tale facoltà, ragion per cui esiste un interesse pratico contenuto rispetto alla rilevanza giuridica dell’istituto. Lo stesso riscontro si manifesta nei finora rari casi in cui banche popolari si sono trasformate in s.p.a. a seguito della Legge 33/2015.

Dobbiamo invece valutare con attenzione l’ipotesi che l’adesione di una banca non venga accolta dal GBC (art. 37bis, comma 2, alinea d). Lo statuto e il piano industriale del GBC stesso debbono contenere i requisiti e possono quindi creare le condizioni di esclusione. Con tale previsione si possono selezionare a monte i propri aderenti, fermo restando il tema del destino delle BCC che non rientrassero nei canoni disposti dagli eventuali diversi GBC. Tuttavia, il comma 5 successivo disciplina il ruolo della Banca d’Italia nell’autorizzare tutte le fasi della partecipazione delle BCC al GBC, compreso il rigetto della richiesta di adesione (nonché l’esclusione successiva). Tali scelte peraltro, in caso negativo, costituirebbero una sentenza pressoché definitiva sul futuro di tutti i rapporti attivi e passivi coinvolti, reclamando quindi una precisa definizione regolamentare dell’eventualità. In particolare, il bail-in di cui alla BRRD vale solo per le banche, oppure anche per le componenti non più autonome di un GBC, oppure resta possibile nel caso qualche forma di bail-out, visto che il testo di recepimento della BRRD in Italia non ne fa cenno e che è esplicitamente prevista l’ipotesi delle azioni di finanziamento?

Sempre con riferimento a questo tema e al relativo comma 5, ci si può domandare quale sia il criterio di sana e prudente gestione da far prevalere, se quello della capogruppo o quello della singola entità, tenendo presente che la prima ha una responsabilità ben precisa rispetto alle seconde e che il grado di autonomia di queste è strettamente correlato alla rischiosità delle gestioni di ciascuna unità. Un eccesso futuro di debolezze periferiche dimostrerebbe carenze nell’azione della GBC, proprio nel suo ruolo fondamentale di compliance, audit e controllo a monte che ne ha motivato la genesi.

Anche questi profili debbono essere regolati dal MEF nel testo richiesto dal comma 7 del futuro 37bis.

4. Alcune ipotesi differenti

Con le dovute cautele reclamate dall’esistenza di un decreto che costituirà base per la discussione, si propongono alcune perplessità e varianti anche alla luce delle reazioni già intervenute.

In primo luogo viene messa in discussione la natura e la sussistenza del movimento cooperativo sovrastato da strutture societarie classiche che potrebbero avere al proprio interno soci rilevanti di diversa matrice. Sotto questo profilo si verificherà la capacità del Movimento Cooperativo di far valere la propria forza contrattuale. Il rischio già sottolineato è quello dell’uscita volontaria di BCC patrimonialmente forti e della necessità di assistere soggetti deboli. Con ogni probabilità, il mondo cooperativo non si attendeva l’introduzione della facoltà di trasformazione in s.p.a. che può svolgere una vera e propria funzione di crowding out indesiderata.

In secondo luogo, è palese la manifestazione di insofferenza verso soluzioni obbligate da parte di BCC che costantemente hanno cercato soluzioni individuali (o di diverso raggruppamento) alternative alle soluzioni centrali ispirate dal modello sorto già nel 1963 con la creazione di ICRREA. L’obiettivo della riforma giunge probabilmente in ritardo rispetto al momento ottimale; quello nel quale nel 1976 fu creata la soluzione del Credit Agricole e, nel 1972, quella di Rabobank. In questa occasione, 40 anni dopo, singole BCC appaiono comunque più forti e più autonome, nonché spesso accompagnate da accordi rilevanti con intermediari di qualità e di respiro internazionale.

In terzo luogo, il Movimento si presenta al momento della riforma dopo alcune esperienze negative di società di servizi che non hanno realizzato i propri obiettivi e assorbito patrimonio, costituendo un precedente che ha determinato lo sviluppo ormai consolidato di alternative che, forse non casualmente, sono ispiratrici di soluzioni alternative al GBC unico.

Sotto un altro profilo, appare sconfitto o insufficiente vincitore il Movimento stesso nella opportunità di costruire un’autoriforma che non si è concretizzata, come nel caso antecedente delle Banche Popolari.

Infine, un’ultima osservazione riguarda l’azione del Governo che ha un prodotto un testo compromissorio, con qualche incongruenza tecnica e che potrebbe essere ancora peggiorato qualora accogliesse modifiche suggerite da portatori di interessi non convergenti. Questo è il motivo predominante per cui si è cercato di proporre soluzioni alternative (certamente da approfondire oltre queste note), anche per evitare che il risultato di questo lento processo (che può durare anche cinque anni) sia “gattopardesco” e tolga comunque spazio ai principi della mutualità e della cooperazione.

 


(*) Le 14 BCC attualmente con patrimonio superiore a 200mln€ sono:

Bcc di Roma – Lazio

Banca d’Alba – Piemonte

Banca di Credito Cooperativo di Cambiano – Toscana

Chianti Banca – Toscana

Credito Cooperativo Ravennate ed Imolese – Emilia Romagna

Emilbanca –Emilia Romagna

Banca Malatestiana – Emilia Romagna

Banca Prealpi – Veneto

Banca del Territorio Lombardo – Lombardia

Credito Cooperativo di Brescia – Lombardia

Bcc di Carate Brianza – Lombardia

Cassa Rurale e Artigiana di Cantù – Lombardia

Cassa Padana – Lombardia

Banca Centropadana – Lombardia

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