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Attualità

La rilevanza del mutuo dissenso nelle imposte sui redditi in una recente risposta dell’Agenzia delle Entrate

15 Aprile 2019

Gabriele Giusti, Dottore di ricerca in diritto tributario, Tinelli & Associati – Studio legale tributario

Di cosa si parla in questo articolo

1. Nella recente risposta n. 92/2019, l’Agenzia delle Entrate si è soffermata sui riflessi fiscali, nell’ambito del reddito d’impresa, dell’atto di risoluzione per mutuo dissenso di un contratto di cessione d’azienda con riserva di proprietà. In particolare, nella fattispecie sottoposta all’esame dell’Agenzia, l’istante chiedeva se, a seguito dello scioglimento dell’accordo per mutuo dissenso ex art. 1372, comma 1, c.c. (e della conseguente restituzione del compendio aziendale), fosse corretto rettificare la dichiarazione riferibile al periodo d’imposta in cui era stata contabilizzata la plusvalenza derivante dalla cessione e, contestualmente, riallocare il compendio aziendale nel proprio bilancio, riprendendo l’originario piano di ammortamento.

L’Amministrazione finanziaria ha tuttavia prospettato una diversa soluzione, ritenendo che lo scioglimento del contratto per mutuo dissenso implichi un “nuovo” trasferimento del compendio aziendale all’originario proprietario, che, quindi, dovrebbe essere allocato nel bilancio di quest’ultimo tenendo conto, ai fini fiscali, del suo “valore normale”. Di conseguenza, il piano di ammortamento dovrebbe ricominciare ex novo, tenendo conto del nuovo valore fiscalmente riconosciuto dei singoli beni dell’azienda. La reimmissione del compendio aziendale nel bilancio dell’originario proprietario dovrebbe, poi, secondo l’Agenzia, comportare lo stralcio del credito da questi vantato nei confronti dell’acquirente (nel caso prospettato, infatti, il corrispettivo non era stato versato e proprio per questo si era giunti allo scioglimento del rapporto per mutuo dissenso), per un ammontare pare al valore “normale” dell’azienda riacquisita. Laddove tale valore normale si riveli inferiore all’ammontare del credito, si verificherebbe una perdita deducibile, mentre, laddove sia superiore, una sopravvenienza attiva ex art. 88 del TUIR.

2. La soluzione fornita dall’Agenzia si fonda sulla tradizionale ricostruzione degli effetti fiscali dello scioglimento per mutuo dissenso degli atti di natura traslativa. Secondo l’Agenzia, infatti, con il mutuo dissenso le parti contraenti non potrebbero mai porre nel nulla o modificare ciò che già si è tra loro verificato in adempimento di un precedente accordo negoziale. Esse potrebbero solo concludere, con effetti ex nunc, un contratto uguale e contrario a quello da risolvere (cd. tesi del “contro-negozio” o del contrarius actus o del negozio “a contro vicenda”)[1].

In effetti, sul piano civilistico, sarebbe possibile immaginare anche una ricostruzione diversa. Con il “mutuo dissenso”, infatti, le parti non desiderano disporre nuovamente, ma solo porre nel nulla l’originario atto di esercizio della loro autonomia negoziale, intervenendo sui suoi effetti giuridici. Se così è, appare allora più plausibile l’impostazione (cd. del contrarius consensus o del “negozio di annientamento”), secondo cui il mutuo dissenso andrebbe inteso come negozio risolutorio con il quale le parti pongono nel nulla, sia per il futuro che per il passato, l’originario contratto[2].

Accogliendo tale tesi, lo scioglimento dell’accordo per mutuo dissenso non comporterebbe un ritrasferimento del bene originariamente alienato, ma semplicemente l’eliminazione, con effetti ex tunc, degli effetti dell’accordo originario. In tal caso, infatti, la restituzione rileverebbe solo come effetto materiale dell’eliminazione degli effetti dell’accordo originario, sicché parrebbe corretto riattribuire al compendio aziendale il valore fiscalmente riconosciuto esistente all’epoca della cessione e, sulla base di esso, riprendere il piano di ammortamento, così come prospettato dalla società istante.

La soluzione proposta dall’istante parrebbe, invece, meno convincente laddove, per eliminare gli effetti della cessione, propone la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui era stata contabilizzata la plusvalenza derivante dalla cessione dell’azienda. Infatti, la rettifica della dichiarazione non appare, in tal caso, necessaria, potendosi dare rilievo all’eliminazione degli effetti dell’operazione anche attraverso il più semplice meccanismo delle sopravvenienze. Più precisamente, l’art. 101, comma 4, del TUIR, considera sopravvenienze passive «il mancato conseguimento di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi», e pare ben adattarsi al caso di specie. Quindi, piuttosto che rettificare (a proprio vantaggio) la dichiarazione riferibile al periodo d’imposta in cui era stata conseguita la plusvalenza, l’istante potrebbe contabilizzare una sopravvenienza passiva che, nel periodo d’imposta dello scioglimento dell’accordo, storni la plusvalenza in precedenza conseguita.

Insomma, secondo quest’impostazione, allo stralcio del credito nel bilancio dell’originario alienante potrebbe corrispondere la reimmissione nel possesso del compendio aziendale, secondo gli originari valori fiscalmente riconosciuti, e la rilevazione di una sopravvenienza passiva diretta a correggere il componente positivo in precedenza contabilizzato, senza necessità di intervenire sulla precedente dichiarazione.

3. La soluzione fornita dall’Agenzia delle Entrate, ad ogni buon conto, desta perplessità anche sotto un altro profilo. Infatti, volendo accogliere la ricostruzione del mutuo dissenso ivi prospettata, la valorizzazione dell’azienda ritrasferita, nel bilancio dell’originario alienante, a valore normale non sembrerebbe comunque una soluzione pienamente corretta. Ciò perché, in ogni caso, alla restituzione dell’azienda corrisponderebbe la rinuncia al credito vantato dall’alienante che potrebbe, in tal modo, considerarsi il “corrispettivo” per il ritrasferimento. Se così fosse, l’azienda dovrebbe essere reimmessa nel bilancio dell’alienante non tenendo conto del valore normale, ma del valore corrispondente al credito rinunciato.

D’altro canto, se si volesse ritenere che la restituzione dell’azienda rappresenti un trasferimento a titolo gratuito, considerato che qui il cessionario era una persona fisica, dovrebbe farsi applicazione di quanto previsto dall’art. 58 del TUIR, a mente del quale il trasferimento gratuito di azienda non costituisce realizzo di plusvalenze e la stessa è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa.

In tal caso, l’acquisizione dell’azienda secondo il valore fiscalmente riconosciuto del dante causa comporterebbe la prosecuzione del piano di ammortamento dallo stesso adottato e la rilevazione di eventuali componenti negativi (perdite su crediti) e positivi (sopravvenienze attive) per effetto della sostituzione, nell’attivo dell’istante, del valore del credito vantato nei confronti dell’acquirente con il valore dell’azienda riacquisita.



[1] In tal senso l’Agenzia delle Entrate richiama la Ris. 13 ottobre 2016, n. 91/E, in banca dati fisconline; in materia di imposta di registro tale ricostruzione è condivisa anche dalla giurisprudenza (cfr. Cass. 2 marzo 2015, n. 4134; più di recente, Cass., Sez. trib., 29 agosto 2018, n. 21312, entrambe in banca dati Le leggi d’Italia).

[2] In tal senso cfr. A. Luminoso, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, 259; per la giurisprudenza cfr. Cass., 6 ottobre 2011, n. 20445, in banca dati Le leggi d’Italia. In materia di imposta sulle donazioni, a tale tesi sembrerebbe aver aderito anche l’Agenzia delle Entrate con la Ris. 14 febbraio 2014, n. 20/E, in banca dati fisconline.

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