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Attualità

I recenti orientamenti della giurisprudenza di merito in tema di compravendita di opere d’arte tra privati

8 Febbraio 2019

Alessandro Vannini, Avvocato, Partner, Federico Di Cesare, Avvocato, Partner, Giordano-Merolle Studio Legale Tributario

1. Il legislatore tributario ha dimostrato una scarsa attenzionale al tema della fiscalità delle opere d’arte. La disciplina tributaria relativa a tali beni, infatti, regola in modo parziale la materia ed è alquanto datata e sostanzialmente applicabile solo a taluni beni di interesse storico o artistico.

Fatta eccezione per queste norme specifiche, il regime fiscale dell’acquisto e detenzione di opere d’arte è soggetto alle regole generali applicabili a qualsiasi tipologia di bene[1]. Questa lacuna normativa genera una situazione di forte incertezza, foriera di altrettanta confusione tra i vari operatori interessati che non sanno quale comportamento adottare, o addirittura non sono consapevoli della possibile rilevanza fiscale della vendita dell’opera d’arte.

2. In particolare, premesso che il costo d’acquisto di un’opera d’arte non è deducibile per il collezionista privato, così come non lo sarebbe se l’acquirente fosse una società (a meno che l’attività di quest’ultima fosse il commercio di opere d’arte)[2], si pone la questione se la plusvalenza eventualmente realizzata in sede di cessione dell’opera da parte del collezionista privato sia soggetta a imposizione ai fini reddituali.

Come noto, l’imposizione sui redditi è informata a un criterio di elencazione casistica delle fattispecie imponibili. Nel vigore dell’ormai abrogato art. 76, comma 1, n. 3), D.P.R. n. 597/1973, le vendite di oggetti d’arte, di antiquariato o in genere da collezione intervenute entro due anni dall’acquisto si presumevano effettuate a titolo speculativo, senza possibilità di prova contraria. Tale presunzione legale assoluta consentiva pertanto di assoggettare a tassazione la plusvalenza eventualmente realizzata all’atto della vendita quale reddito diverso[3].

Successivamente, con l’entrata in vigore del TUIR, il predetto art. 76 non è stato replicato; nell’ambito della “nuova” casistica, dunque, non figurano le plusvalenze derivanti dalla cessione di opere d’arte, così come non figurano ad esempio le cessioni di gioielli, autovetture, ecc. Queste plusvalenze possono rientrare nell’ambito di applicazione dell’imposta sul reddito soltanto se realizzate nell’ambito di un’attività commerciale, anche occasionale[4].

3. Il dibattito riguardo alla tassazione delle plusvalenze derivanti da vendite di opere d’arte o beni da collezione è stato alimentato da orientamenti della giurisprudenza di legittimità altalenanti, principalmente basati sull’individuazione del requisito dell’abitualità per accertare o negare la presenza di un’attività commerciale. In particolare, si rinvengono sia pronunce che hanno acriticamente confermato l’imponibilità delle plusvalenze derivanti dalla cessione di tali beni[5], sia pronunce che hanno disposto l’annullamento dei recuperi erariali[6].

4. La giurisprudenza di merito ha, invece, generalmente escluso la ricorrenza di un’attività d’impresa nella vendita di beni da collezione, sulla base delle differenze ravvisabili tra la figura del “mercante d’arte” e la figura del “collezionista”.

Questa tesi è stata confermata anche di recente dalla Commissione tributaria regionale Piemonte, sezione n. 3, con la sentenza n. 1412 dell’11 giugno 2018 la quale ha interamente rigettato la tesi accertativa[7], affermando che i proventi derivanti dalla dismissione di una collezione di opere d’arte (ancorché in blocco, come avvenuto nel caso di specie) non sono assoggettabili a tassazione. In effetti, è perfettamente normale che un collezionista acquisti e venda opere d’arte nella prospettiva di ampliare ed arricchire la propria collezione e, a ben vedere, la dedizione che egli profonde in tale attività non va confusa con lo svolgimento di atti di commercio.

Il collezionista puro, infatti, diversamente dal “mercante d’arte”, realizza compravendite di opere d’arte spinto dalla (sola) pulsione culturale di accrescere la propria collezione ed è scevro da intenti imprenditoriali.

Tuttavia, se le due figure sono facilmente distinguibili in astratto, i loro contorni possono essere piuttosto sfumati in concreto ed in ogni caso dipendono dall’accertamento di circostanze fattuali (quali ad esempio l’animus del soggetto) non predeterminabili.

Nel caso oggetto di questa recente sentenza, ad esempio, è stata esclusa la finalità lucrativa in quanto il contribuente ha dimostrato che la dismissione progressiva della propria collezione è stata motivata da esigenze economiche di natura personale. In altri casi, è stato ritenuto decisivo che il contribuente non effettuasse esclusivamente compravendite, ma anche permute e che, in ogni caso, le operazioni fossero sprovviste dei caratteri di sistematicità e continuatività tipiche dell’attività imprenditoriale[8].

Sembra dunque prevalere, in seno alla giurisprudenza di merito, la tesi per cui i proventi derivanti dalla cessione di opere d’arte effettuata da parte del collezionista nell’ambito della normale gestione della propria collezione non costituiscono reddito tassabile.



[1] Per una panoramica generale sul tema, cfr. G. Maisto, “Profili fiscali relativi all’acquisto e detenzione di opere d’arte”, in G. Negri Clementi, S. Stabile (a cura di), Il diritto dell’arte, vol. 2, Milano, 2013, p. 233 e ss.; P. Scarioni, P. Angelucci, “La tassazione delle opere d’arte”, Milano, 2014.

[2] Cfr. parere n. 29 del comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive del 19 ottobre 2005. In tal senso, anche Cass., sentenza n. 22021 del 22 giugno 2006.

[3] In particolare, tale plusvalenza veniva ricompresa entro i “redditi derivanti da operazioni speculative”.

[4] Si veda l’art. 67, comma 1, lett. i) del TUIR. A patto, ovviamente, che il contribuente non si qualifichi come “mercante d’arte”, eventualità al ricorrere della quale non costituirebbe certo una sorpresa la produzione di un reddito d’impresa ai sensi dell’art. 55 del TUIR.

[5] Su tutte, cfr. Cass., sentenze nn. 3039 dell’8 febbraio 2008, 7760 e 7761 del 21 marzo 2008, 8196, 8198, 8199 e 8200 del 31 marzo 2008. 

[6] Cfr. Cass., sentenza n. 21776 del 20 ottobre 2011.

[7] Secondo cui gli indici rivelatori della “commercialità” delle operazioni poste in essere dal contribuente sarebbero stati rappresentati, oltre che dalla rilevanza economica e dalla numerosità delle cessioni, anche dalla ricorrente partecipazione di quest’ultimo a mostre e gallerie d’arte.

[8] In tal senso, cfr. Comm. trib. reg. Toscana, sentenza n. 826 del 9 maggio 2016. Si venda anche Comm. trib. reg. Sicilia, sentenza n. 2 del 13 gennaio 2012.

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