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Attualità

L’Agenzia delle Entrate conferma che le società tra avvocati producono reddito d’impresa

15 Maggio 2018

Daniele Canè, Dottore di ricerca in diritto tributario, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Di cosa si parla in questo articolo

1. Con risoluzione n. 35/E del 7 maggio 2018 (cfr. contenuti correlati), l’Agenzia delle Entrate è tornata sul dibattuto tema della qualificazione del reddito prodotto dalle società tra professionisti, occupandosi, questa volta, delle società tra avvocati, disciplinate dall’art. 4-bis, legge 247/2012 (legge dell’ordinamento forense). L’Agenzia ha ritenuto che l’esercizio della professione forense in forma societaria costituisce attività d’impresa, produttiva, come tale, di reddito d’impresa. Ciò in quanto, nel nostro ordinamento, il reddito prodotto da società tipologicamente destinate all’attività d’impresa, come società per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo o in accomandita semplice, va comunque considerato reddito d’impresa (articoli 6, comma 3 e 81, D.P.R. 917/86; Tuir). A nulla rileva l’attività effettivamente svolta.

E’ appena il caso di ricordare che la possibilità di esercitare la professione forense in forma societaria è un’acquisizione relativamente recente[1], essendosi a lungo opposto il principio della personalità della prestazione professionale, oltre al risalente divieto posto dalla legge n. 1815/1939 (che vietava, appunto, l’esercizio della professione legale in forme diverse dall’associazione professionale, per impedire a soggetti privi dei requisiti di legge operassero dietro lo schermo societario)[2].

2. La risposta dell’Agenzia si discosta solo in apparenza dal più risalente precedente di prassi, la risoluzione n. 118/E del 28 maggio 2003, che riguardava le società tra avvocati, disciplinate dagli articoli 16 e seguenti, d.lgs. 96/2001, e, per quanto ivi non regolato, dalle norme civilistiche sulle società in nome collettivo. In quel caso, l’Amministrazione aveva qualificato il reddito prodotto dalle s.t.a. come reddito da lavoro autonomo, perché derivante dallo svolgimento di un’attività professionale[3]. Aveva considerato irrilevanti i riferimenti alle norme che regolano le società in nome collettivo, contenute nel d.lgs. 96/01, ritenendo che le s.t.a. costituissero comunque un nuovo modello societario, diverso dai tipi disciplinati dal codice civile. Non poteva dunque applicarsi la norma di cui all’art. 6, comma 3, Tuir, che qualifica come reddito d’impresa quello conseguito da società in nome collettivo.

In tema di redditi prodotti da società professionali costituite secondo i tipi societari previsti dal codice civile, invece, l’Agenzia ha sempre valorizzato la forma societaria, non l’attività svolta. Così, sono stati considerati redditi d’impresa quelli prodotti dalle società tra ingegneri, costituite come società a responsabilità limitata in base alla legge 109/94[4] (ris. n. 56/E del 4 maggio 2006); e quelli delle società tra professionisti, costituite ai sensi dell’art. 10, l. 183/2011, in forma di società di capitali o di persone commerciali[5]. Come nella risoluzione 35/E, in questi casi l’Amministrazione ha applicato alla lettera gli articoli 6, comma 3, e 81, Tuir, che qualificano come reddito d’impresa, da qualunque fonte provenga, quello prodotto da soggetti che rivestono le forme societarie previste dal codice civile per l’esercizio di attività commerciale.

3. La risposta dell’Amministrazione si può apprezzare dal punto di vista pratico, perché evita le complicazioni che deriverebbero dall’applicare, a società di capitali, le norme relative al reddito da lavoro autonomo[6]. Ad esempio, poiché il reddito da lavoro autonomo è tassato (imputato) in base al principio di cassa, occorrerebbe predisporre un bilancio fiscale accanto a quello contabile, che segue invece il principio di competenza; i compensi percepiti dalla società dovrebbero essere assoggettati a ritenuta d’acconto, di norma non applicata ai redditi d’impresa; soprattutto, a meno di non mantenere l’ircocervo tributario di una società che produce reddito da lavoro autonomo tassato come reddito d’impresa, occorrerebbe assimilare tout court il regime delle s.t.a. a quello delle associazioni professionali, con la conseguenza che il reddito della s.t.a. dovrebbe essere imputato ai soci, in proporzione alle quote di partecipazioni agli utili, anche se da essi non percepito (art. 5, comma 3, lett. c), Tuir)[7].

Pur fedele all’impianto del Tuir, l’interpretazione dell’Amministrazione sembra tuttavia discriminare, in base a un dato formale, soggetti che svolgono attività sostanzialmente simili (l’avvocato-socio dell’associazione professionale e l’avvocato-socio di una s.t.a.). L’equivalenza tra società e impresa[8], che è alla base della predestinazione di determinate società allo svolgimento di attività commerciali (art. 2249 c.c.), non è sempre valida nel diritto tributario, come dimostrano le norme fiscali che contrastano variamente l’abuso dello schermo societario (c.d. società senza impresa), disapplicando la disciplina del reddito d’impresa.

La partita non può dunque dirsi chiusa. Si potrebbe, anzi, rimeditare il ruolo del contratto societario nella definizione del regime tributario dei redditi d’impresa[9], nell’ambito di una riflessione più ampia, che riguarda il rapporto tra forma e sostanza nel diritto tributario e che tocca ormai tutti i livelli della nostra materia (si pensi al Progetto BEPS, che sta determinando importanti cambiamenti nel quadro normativo sovranazionale); e, per questa via, valutare metodi alternativi alla qualificazione unitaria del reddito d’impresa, per distinguere cioè, nel reddito prodotto dalla s.t.a., la parte che remunera l’attività del socio-avvocato, che è un reddito da attività, da quella che remunera il capitale investito dal socio non avvocato, che è un reddito di capitale (anche mantenendo, se si vuole, il sistema “smontato” Ires-tassazione personale).

L’esperienza dei Paesi nordici – in particolare, della Danimarca – con la Dual Income Tax per gli imprenditori individuali potrebbe essere di aiuto a questo fine[10].



[1] Artt. 16 s., d.lgs. 96/2001, in materia di società tra avvocati; art. 10, l. 183/2011, sulle società tra professionisti.

[2] G.F. Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, 8a ed., a cura di M. Campobasso, Torino, 2014, 13 s.

[3] La stessa relazione al d.lgs. 96/2001 escludeva la natura commerciale dell’attività di queste società.

[4] Oggi art. 90, comma 2, lett. b), d.lgs. 163/2006.

[5] Risposte ad interpelli n. 954-93/2014, in Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2014, n. 954-55/2014 del 16 ottobre 2014 e n. 904-1126/2017, ivi, 29 ottobre 2017.

[6] Cfr. parere della Commissione Finanze della Camera dei deputati sul – poi stralciato – art. 11, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175.

[7] Cfr. P. Piantavigna, La qualificazione del reddito nelle società tra professionisti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2015, I, 100.

[8] Che si deve alla dottrina tradizionale: tra gli altri, v. T. Ascarelli, Corso di diritto commerciale, Torino, 1962, 152 s.

[9] T. Tassani, Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, 2007.

[10] Cfr. Aa.Vv., Tax Policy in the Nordic countries, a cura di P.B. Sorensen, MacMillan Press Ltd, 1998.

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