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Attualità

Informativa e valutazione nella crisi d’impresa. Inquadramento, strumenti di indagine e proposte di chiarimento nelle nuove linee guida del CNDCEC

12 Novembre 2015

Francesco Mancuso

Di cosa si parla in questo articolo

Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili (anche noto come “CNDCEC”) ha pubblicato, lo scorso 30 ottobre 2015, il documento denominato “informativa e valutazione nella crisi d’impresa” (cfr. contenuti correlati), con l’obiettivo di sviluppare alcune riflessioni sull’analisi e il trattamento delle imprese in stato di crisi o insolvenza e cercando di meglio chiarire, proprio con riguardo a quest’ultimo aspetto, le differenze tra le diverse nozioni di “stato di crisi” e “stato di insolvenza”, la cui valutazione sconta, tutt’oggi, non poche incertezze interpretative.

L’intervento del CNDCEC segue diverse iniziative recentemente messe in atto anche e soprattutto in considerazione dell’accentuata crisi economica e finanziaria che coinvolge le imprese italiane e che, dunque, ha necessariamente richiesto l’intervento, in primis del Legislatore, ai fini di una “riorganizzazione” della disciplina della crisi d’impresa e dell’implementazione di nuove misure volte a facilitare la risoluzione di situazioni di tensione economica e/o finanziaria che spesso si traducono, all’evidenza, in situazioni di definitiva insolvenza dell’impresa.

In prima battuta, il documento in oggetto si prefigge di inquadrare il concetto di crisi di impresa sotto un profilo giuridico, delineandone i confini rispetto al concetto di insolvenza (quest’ultimo essendo, come noto, presupposto imprescindibile e necessario per l’apertura di una procedura fallimentare nei confronti delle imprese commerciali non piccole), per poi analizzare, da un punto di vista squisitamente aziendalistico, gli elementi qualitativi e informativi di rilevazione degli stadi della crisi e dell’insolvenza, cercando di fornire strumenti utili per la valutazione del carattere di reversibilità o, al contrario, di definitività dei predetti stadi.

Venendo all’esame del documento, il CNDCEC precisa che, mentre il concetto di stato di insolvenza – cristallizzato all’art. 5 della legge fallimentare – riflette uno stato di difficoltà ormai irreversibile e quindi “statico”, non vi è tutt’oggi unità di vedute sulla definizione di stato di crisi e ciò, a tacer d’altro, anche in considerazione del fatto che la legge fallimentare non ne fornisce una chiara e precisa definizione.

Il documento, pur riportando una tesi piuttosto diffusa in Dottrina, secondo cui lo stato di crisi si concreterebbe – contrariamente allo stato di insolvenza – in “una perturbazione o improvvisa modificazione di un’attività economica organizzata, prodotta da molteplici cause ora interne al singolo organismo, ora esterne, ma comunque capaci di minarne l’esistenza o la continuità”, mette in luce che la stessa legge fallimentare richiama lo stato di crisi quale presupposto per l’attivazione di strumenti risolutivi della stessa crisi alternativi al fallimento, quali i piani attestati di risanamento di cui all’art. 67, il concordato preventivo di cui agli artt. 160 e ss. e gli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis della legge fallimentare, precisando esclusivamente, all’art. 160, terzo comma, che “..per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.

Da quanto sopra ne discende, a dire del CNDCEC, una diffusa incertezza interpretativa nella valutazione dello stato di crisi che necessariamente richiede un’analisi sistematica delle diverse disposizioni legislative che vi fanno riferimento (direttamente o indirettamente). A tal proposito, il CNDCEC evidenzia, ad esempio, che nel D. Lgs. n. 270 dell’8 luglio 1999 (“Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza”) il concetto di insolvenza viene richiamato quale temporanea difficoltà ad adempiere le proprie obbligazioni (o insolvenza cd. “potenziale”), similmente a quanto previsto nell’abrogato art. 187 della legge fallimentare. La nozione di temporanea difficoltà – che non esclude, certamente, la possibilità di tornare in bonis – sarebbe certamente più coerente con il concetto di crisi previsto per le procedure alternative al fallimento (quali quelle sopra menzionate).

L’analisi del CNDCEC continua poi mostrando come, peraltro, nell’ordinamento giuridico esistente, non esista un unico concetto di insolvenza (si vedano, ad esempio, gli articoli 1186, 2221 e 1943 del codice civile), sottolineando che l’unica disposizione che fa riferimento (ai fini della valutazione dell’irreversibilità della capacità di adempimento) non allo stato di insolvenza ma ad un concetto di “difficoltà e crisi prospettica” è quella di cui all’art. 2467 del codice civile in materia di postergazione dei finanziamenti dei soci rispetto agli altri creditori se effettuati in situazioni in cui “risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato più ragionevole un conferimento”.

Si giunge, quindi, alla conclusione per cui la temporanea illiquidità e il rischio di insolvenza rappresentano fattispecie di crisi che non necessariamente si identificano con il concetto di insolvenza espresso all’art. 5 della legge fallimentare. Sulla scia di tale orientamento, la Suprema Corte di Cassazione ha infatti statuito (da ultimo, Cass. Civ. n. 10952 del 27 maggio 2015) che “deve intendersi per insolvenza una situazione irreversibile e non già una mera temporanea impossibilità di regolare l’adempimento delle obbligazioni assunte” (grassetto aggiunto), ponendo quindi l’accento sulla reversibilità o meno dello stato di crisi. Per questo, infatti, l’impresa può soffrire momenti temporanei di difficoltà non necessariamente strutturali o definitivi e, quindi, può affermarsi che mentre l’insolvenza è, necessariamente, un effetto della crisi, quest’ultima non per forza si tramuta in insolvenza.

Sul piano legislativo, anche la Commissione Ministeriale per la Riforma delle Procedure Concorsuali istituita il 24 febbraio 2015 (cd. “Commissione Rordorf”) è intervenuta esprimendo la necessità dell’introduzione “di una specifica definizione della crisi, quale presupposto – così come l’insolvenza reversibile – del concordato preventivo….” pur utilizzando, nella bozza di relazione del disegno di legge, una sovrapposizione di concetti (insolvenza reversibile, insolvenza, crisi, difficoltà finanziaria) che, a detta del CNDCEC, non sarebbero coerenti con il “reale e dinamico” concetto aziendalistico di crisi d’impresa.

Come sopra anticipato, nella seconda parte del documento il CNDCEC offre quindi una definizione di stato di crisi e stato di insolvenza da un punto di vista aziendalistico, evidenziando, inoltre, taluni strumenti utili per la rilevazione e la valutazione degli stessi. Si precisa, a tal riguardo, che mentre l’insolvenza può essere accertata prevalentemente secondo una visione storica e, dunque, secondo dati contabili riassunti ex post (stante l’inescludibile margine di errore proprio dei modelli prognostici di valutazione dell’insolvenza), la crisi temporanea deve essere valutata secondo una visione prospettica, “tesa ad individuare l’incapacità in futuro di adempiere non solo le obbligazioni già assunte, ma anche quelle prevedibile nel normale corso di attività”. Il CNDCEC suggerisce, in entrambi i casi, un utilizzo “complessivo” dei dati contabili, la considerazione delle prospettive future dell’impresa e della programmazione dell’attività aziendale e, comunque, una valutazione case by case in quanto non necessariamente gli indicatori dello stato di crisi sono determinabili ex ante.

Sulla scorta di quanto sopra, la nozione di crisi viene definita prendendo come fondamento il concetto di “incapacità corrente dell’azienda di generare flussi di casa, presenti e prospettici, sufficienti a garantire l’adempimento delle obbligazioni già assunte e di quelle pianificate”, dando quindi centralità alla dimensione finanziaria (“generare flussi di cassa”) e riferendosi anche alle obbligazioni prevedibili e, quindi, secondo valutazioni da compiersi ex ante sulla base dell’operatività dell’impresa stessa.

Con riferimento, invece, alle modalità di accertamento della crisi, il documento sottolinea non solo il ruolo del revisore legale dei conti e del collegio sindacale, ma anche la necessità di non fermarsi ad una valutazione di dati “quantitativi” (come ad esempio i dati desumibili dai bilanci o dai diversi documenti contabili dell’impresa), quanto più ad utilizzare anche parametri di natura “qualitativa” (quali, ad esempio, la perdita di amministratori “chiave” o di mercati di riferimento), specificando, con particolare riguardo al primo dei due aspetti (i.e. la valutazione di dati quantitativi) che spesso i dati contabili non rappresentano fedelmente lo stato di salute dell’impresa e sottolineando che nella valutazione degli stessi sono imprescindibili i cd. “impairment test” ai fini esprimere il valore d’uso corrente del patrimonio aziendale.

Il CNDCEC suggerisce inoltre di adottare valutazioni “prospettiche” che non prescindano da una pianificazione e programmazione a medio termine elaborate con l’ausilio di professionalità anche esterne all’azienda, con la precisazione che sono da preferire i piani costruiti su basi cd. “inerziali” (i.e. piani che si muovono sull’assunto che vengano ripetute le scelte compiute in passato, con il vantaggio di poter valutare i risultati che ne sono conseguiti) e accompagnati da precise ed accurate analisi di “stress test”, e cioè scenari alternativi e peggiorativi rispetto a quanto previsto nel piano, ma comunque ritenuti probabili (cosa che avviene di prassi, ad esempio, nelle relazioni di attestazione elaborate nell’ambito dei piani attestati di risanamento, dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione dei debiti).

Nel metodo di indagine, rilievo primario dovranno assumere, tra le altre cose, la capacità dell’impresa di ripianare il debito finanziario con i risultati derivanti dalla gestione operativa, l’indebitamento potenziale (comprensivo di quello residuo e di quello prospettico, cioè ragionevolmente necessario per la continuazione dell’attività d’impresa) oltre che il confronto tra costi e ricavi (anche qui, attuali e potenziali) dell’impresa (“punto di break even”).

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