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Giurisprudenza

Efficacia della sentenza del giudice tributario su diverse annualità della medesima imposta e condizioni di operatività della società di comodo

25 Settembre 2019

Manfredi Sclopis

Cassazione Civile, Sez. V, 20 aprile 2018, n. 9852 – Pres. Crucitti, Rel. Giudicepietro

Di cosa si parla in questo articolo

Con l’ordinanza in esame, la Suprema Corte ribadisce alcuni principi importanti in materia tributaria, attinenti all’efficacia delle sentenze con cui si accertano gli obblighi del contribuente rispetto a tributi dovuti dal contribuente medesimo negli anni successivi, nonché all’onere probatorio in tema di applicazione delle norme antielusive.

In particolare, una società ricorreva per la cassazione della sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale della Puglia aveva dichiarato “inammissibile, per la ‘scarna rappresentazione’ dei fatti, l’istanza di disapplicazione della normativa antielusiva” proposta dalla società medesima. Secondo il ricorrente, infatti, risulterebbe opponibile all’Agenzia delle Entrate nel procedimento de quo il giudicato esterno della sentenza di appello relativa a due avvisi di accertamento avviati nei confronti della società ricorrente per gli anni di imposta 2006 e 2007, sentenza che aveva stabilito che “non è possibile ritenere detta società non operativa, ai fini dell’applicazione delle norme antielusive”, poiché “la documentata mancata realizzazione dell’opificio industriale ha comportato, come naturale conseguenza, l’impossibilità di poter conseguire alcun reddito di impresa, tanto meno quello minimo presuntivamente determinato ex lege per le società cd. non operative”. Pertanto, in mancanza di impugnazione da parte dell’Agenzia delle Entrate della richiamata decisione, questa sarebbe divenuta definitiva, e il giudicato esterno produrrebbe la sua efficacia preclusiva anche in questo giudizio, stante l’evidente comunanza dei presupposti soggettivi ed oggettivi, con conseguente non applicabilità delle norme antielusive.

Quanto sopra risulterebbe peraltro confermato da una massima richiamata dal ricorrente, secondo cui l’accertamento definitivo contenuto in una decisione può estendersi anche ad un altro periodo di imposta, in ordine alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause[1].

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, rammentando che il ricorrente non avrebbe allegato le prove necessarie per dimostrare la mancata realizzazione dell’opificio anche nell’anno 2010, né quelle necessarie e sufficienti per accertare che la situazione societaria sia rimasta nel tempo immutata. Ed invero, è stato proprio evidenziato da codesto organo giudicante, in tema di efficacia del giudicato esterno per diversi anni di imposta, come “la sentenza del giudice tributario con la quale si accertano il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato anno d’imposta fa stato, nei giudizi relativi ad imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi, ove pendenti tra le stesse parti, solo per quanto attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente permanente, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l’accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto relativi a tributi differenti ed a diverse annualità[2]”.

Con il secondo motivo, il ricorrente ha poi eccepito violazione della norma di cui all’art. 2697 cod. civ. in tema di onere probatorio. Secondo il ricorrente, la decisione emessa in appello sarebbe viziata, in quanto l’Agenzia delle Entrate non avrebbe dimostrato la ricorrenza dei presupposti di una pratica elusiva messa in atto dalla società, che avrebbe invece allegato le ragioni per cui era impossibilitata a svolgere attività di impresa.

Il secondo motivo viene anch’esso dichiarato infondato dalla Suprema Corte, che sottolinea come in materia di società di comodo grava sul contribuente l’onere di dimostrare la sussistenza dei requisiti per la disapplicazione delle norme antielusive, onere che il ricorrente non ha soddisfatto, come correttamente sottolineato dal giudice d’appello.

Infine, con il terzo motivo il ricorrente lamenta che la documentazione necessaria per l’accoglimento dell’istanza di disapplicazione delle norme antielusive era in possesso di altre amministrazioni pubbliche e pertanto non producibili dalla società.

Anche questo terzo ed ultimo motivo viene dichiarato infondato, in quanto la società ricorrente ha l’onere di allegare la documentazione necessaria per l’accoglimento dell’istanza, cui tuttavia la società non ha debitamente provveduto.

L’art. 30, comma 1 della legge n. 724/1994 ha introdotto una presunzione legale relativa in base alla quale una società si considera “non operativa” (o “di comodo”) se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati in conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società (cosiddetto test di operatività dei ricavi).

Siccome l’art. 30 della Legge n. 724/1994 individua la società “non operativa” esclusivamente sulla base del criterio quantitativo del test, indipendentemente dalle intenzioni e dal comportamento dei soci, il comma 4 bis dell’art. 30 della Legge n. 724/1994 ha previsto la possibilità di presentare istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle “relative disposizioni antielusive”) in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore) che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al comma 1 dell’art. 30;



[1] Cass. Civ., Sez. Un., sentenza n. 13916/2006.

[2] Cass. Civ., sentenze n. 6953/2015; n. 4832/2015.

 

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