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Giurisprudenza

Giudizio di meritevolezza dei contratti derivati over the counter. Recenti sviluppi giurisprudenziali.

10 Aprile 2019

Edoardo Grossule, assegnista di ricerca nell’Università Cattolica del Sacro Cuore

Di cosa si parla in questo articolo

SOMMARIO: 1. Il problema delle operazioni in derivati over the counter – 2. Il giudizio di meritevolezza dello strumento derivato: dalla causa in concreto alla razionalità dell’alea – 3. La dichiarazione di operatore qualificato ex art. 31, I Regolamento intermediari – 4. Conclusioni

1. Il problema delle operazioni in derivati over the counter

Le operazioni di investimento in strumenti derivati, segnatamente i contratti negoziati bilateralmente tra intermediario e cliente (c.d. over the counter, in seguito “OTC”), rimangono ancora oggi un tema al centro del dibattito sia in giurisprudenza che in dottrina. In particolare, il giudizio di meritevolezza, ex art. 1322, comma 2, c.c., dei contratti di interest rate swap (di seguito, “IRS”), cerca faticosamente di trovare un suo assestamento grazie alle più recenti pronunce della Corte di Cassazione.

E’ bene premettere che il problema giuridico si riferisce alla regolamentazione ante direttiva 2004/39/CE (di seguito “MiFID”) e dunque al Regolamento Consob n. 11522 del 1998 (di seguito, “I Regolamento Intermediari”) successivamente sostituito prima dal Regolamento 16190 del 2007 (di seguito “II Regolamento Intermediari”), emanato in seguito all’adeguamento del nostro ordinamento della MiFID, a sua volta oggi superato dal Regolamento 20307 del 15 febbraio 2018 (di seguito “nuovo Regolamento Intermediari”) in ragione dell’entrata in vigore del Regolamento UE n. 600/2014 (di seguito, “MiFIR”) e dell’adeguamento alla direttiva 2014/65/EU (in seguito “MiFID II”). La premessa è doverosa per inquadrare correttamente il quadro normativo di riferimento dell’evoluzione giurisprudenziale. Ultimamente la discussione sulla natura e la meritevolezza della tutela sorge da una diffusa pratica di misselling degli strumenti derivati, conseguenza anche di un eccessivo quanto improprio ricorso del caveat della autodichiarazione di operatore qualificato da cui dipendeva l’inapplicabilità di diversi presidi normativi in favore del cliente; in particolare, venivano derogate: la previsione della forma scritta ex art. 23 D.lgs. 58/1998 – testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (di seguito “TUF”) –, la disciplina del conflitto di interessi, gli obblighi di informazione attiva e passiva (art. 27, I Regolamento Intermediari), e da ultimo le prescrizioni in tema di operazioni inadeguate (art. 29, I Regolamento Intermediari). Le più rigorose regole di comportamento introdotte con MiFID – con una valutazione in fase di distribuzione – e, oggi, la disciplina della product governance di MiFID II – con una duplice verifica prima in astratto in fase di produzione dello strumento finanziario e poi nuovamente al momento della sua distribuzione – dovrebbero sul piano teorico ridurre la possibilità che strumenti complessi come i derivati vengano sottoscritti senza un’efficace verifica della capacità del cliente di comprendere la reale portata dei rischi connessi all’operazione di investimento.

Più in generale, dunque, il problema di fondo è da individuare nello strutturale conflitto di interessi che caratterizza un’operazione in derivati OTC: una controparte, generalmente la banca, riveste il doppio ruolo di consulente e contraente e gode, dunque, di una posizione di superiorità informativa rispetto all’altra controparte, l’operatore commerciale. In altre parole, l’operatore commerciale si rivolge ad un soggetto che allo stesso tempo deve strutturare il prodotto in base alle necessità del cliente e assumersi il rischio che gli viene trasferito attraverso il derivato. Di qui, l’intreccio dei due temi che qui si passano in rassegna: l’evoluzione giurisprudenziale sul giudizio di meritevolezza e la qualificazione nonché la validità della dichiarazione di operatore qualificato.

2. Il giudizio di meritevolezza dello strumento derivato: dalla causa in concreto alla razionalità dell’alea

Sul giudizio di meritevolezza di tutela dei derivati da parte dell’ordinamento si possono distinguere oggi tre principali filoni. Il primo, minoritario, non mette in discussione la validità degli swap e riconosce la responsabilità precontrattuale dell’intermediario a fronte dell’inadempimento per violazione delle regole di condotta. Il secondo e il terzo filone, maggioritari, sostengono entrambi la nullità dei contratti derivati oggetto di controversia, giungendo a tale conclusione a seguito di due diversi percorsi argomentativi. L’orientamento più risalente e confermato da un recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Cass. 31 luglio, 2017, n. 19013) riconosce l’accertamento della nullità del contratto per difetto della causa concreta in quanto il derivato, stipulato per finalità di copertura, risulta per contro inidoneo a perseguire gli interessi voluti da una delle parti, precisamente dall’operatore commerciale. In questa prospettiva, è rilevante funzione che si vuole perseguire con lo strumento derivato che può essere di copertura o speculativa. Su questo presupposto, la Suprema Corte si è occupata di stabilire quando un derivato può definirsi di copertura e, sul punto, fa riferimento a tre precisi criteri di valutazione, stabiliti da CONSOB con la sua Determinazione DI/99013791 del 26 febbraio 1999. Uno strumento derivato si considera di copertura quando: 1) le operazioni siano esplicitamente poste in essere al fine di ridurre la rischiosità di altre posizioni detenute dal cliente; 2) sia elevata la correlazione tra le caratteristiche tecnico-finanziarie dell’oggetto della copertura e dello strumento finanziario utilizzato a tal fine; 3) siano adottate procedure e misure di controllo interno idonee ad assicurare che le condizioni di sui sopra ricorrano effettivamente. Quando tali circostanze non ricorrono, lo strumento derivato negoziato non realizza pienamente una funzione di copertura. Tale recente arresto della Suprema Corte conferma dunque l’orientamento giurisprudenziale secondo cui è il contratto derivato è nullo per mancanza di causa in concreto, ma nel contempo aggiunge che nel valutare ai sensi dell’art. 1322 c.c. la meritevolezza degli interessi perseguiti con un contratto derivato – nel caso di specie un IRS – il giudice deve comunque considerare l’art. 21 TUF e del Regolamento intermediari Consob vigente al tempo della sottoscrizione (nella specie, l’art. 26 del Regolamento n. 11522), nonché per i contratti IRS di copertura, la Determinazione Consob sopra citata. L’art. 21 TUF rientra dunque fra i requisiti di meritevolezza dell’operazione di investimento (contra chi ritiene invece, sulla scorta delle “sentenze gemelle” Cass. SS.UU. n. 26274 e n. 26725, si debba tenere fermo che la violazione delle regole di comportamento produca la responsabilità precontrattuale e non la nullità del contratto).

Una giurisprudenza ricorrente, e relativamente più recente, ha elaborato una seconda via per la quale si giunge comunque alla dichiarazione di nullità del derivato per difetto di causa. Questa seconda via, ai fini del giudizio di meritevolezza degli interessi, prescinde in prima battuta dalla finalità che si vuole perseguire con lo strumento derivato stipulato, ma prende in considerazione altri elementi del contratto che ne costituiscono la causa.

Secondo tale orientamento, i contratti derivati sono delle scommesse della particolare categoria di quelle legalmente autorizzate in virtù dell’articolo 23, comma 5, TUF, che, nell’esonerare tali contratti dalla disciplina dell’art. 1933 c.c., ne richiama la sua natura aleatoria. Detto questo, perché la scommessa sia legalmente autorizzata e perciò meritevole di tutela deve presentare un’alea razionale per entrambi gli scommettitori; in altre parole, il rischio deve essere ponderato e ragionato. Il contrato derivato swap è valido qualora presenti un’alea bilaterale e razionale (App. Milano 13 settembre 2013 e anche App. Bologna, 11 marzo 2014). La bilateralità sussiste allorquando su ciascuno dei contraenti grava una componente di rischio. Pur non essendo necessario che lo strumento finanziario produca una distribuzione del rischio in modo equivalente tra le parti, l’assoluta mancanza dell’alea a carico di un contraente può dar luogo ad assenza di causa (Trib. Napoli, 2 maggio 2017, n. 4698 e Trib. Roma, 8 gennaio 2016 n. 212). Oltre alla bilateralità, l’alea deve essere «razionale» nel senso che il contratto deve consentirne la misurabilità. Conseguentemente, quando una delle controparti, solitamente l’operatore commerciale, non è posto nelle condizioni di prefigurarsi i rischi assunti e la misura degli stessi, l’alea bilaterale non può dirsi razionale e pertanto, configurando un elemento essenziale della causa del contratto, il derivato è nullo (Trib. Roma, 5 giugno 2017, n. 11364). A tal fine è necessario che dal contratto si possano evincere gli elementi che complessivamente considerati determinano, concretamente, la distribuzione dell’alea, in particolare: gli scenari probabilistici, le conseguenze del verificarsi degli eventi, il valore del derivato, gli eventuali costi impliciti e, infine, i criteri con cui determinare le penalità in caso di recesso. Qualora il contratto manchi di tali elementi si deve ritenere nullo per difetto di causa: la razionalità dell’alea fonda, infatti, il riconoscimento della meritevolezza della tutela da parte dell’ordinamento (App. Milano, 18 settembre 2013). La Corte di Cassazione ha però escluso che un eventuale difetto di informazione da parte dell’intermediario all’investitore sugli esatti termini del rischio assunto con i contratti stipulati possa determinare la nullità dello stesso, non incidendo tale difetto sulla loro causa negoziale, ma potendo ciò al limite determinare solo conseguenze sul piano risarcitorio, laddove effettivamente sussista la violazione di obblighi di condotta dell’intermediario (Cass., 28 luglio 2017, n. 18781).

Inoltre, Il giudice deve tener conto delle commissioni implicite e del loro peso sull’articolazione della scommessa e dunque chiarire se questa rappresenti una scommessa razionale (Trib. Milano, 14 dicembre 2016). Tutti gli elementi dell’alea e gli scenari che da essa da essa possono discendere integrano la causa del contratto derivato e devono pertanto essere definiti e conosciuti ex ante, con certezza, da tutte le controparti (Trib. Torino, 17 gennaio 2014).

Tra questi elementi di costo, nella giurisprudenza sono stati oggetto di particolare approfondimento il mark to market (metodo di valutazione in base al quale il valore di uno strumento o contratto finanziario è sistematicamente aggiustato in funzione dei prezzi correnti di mercato) e la somma di denaro che il soggetto eventualmente avvantaggiato nella stipula dello swap deve pagare alla controparte (svantaggiata) per riequilibrare finanziariamente il contratto, affinché abbia valore iniziale nullo (c.d. up front). Detti elementi del contratto rappresentano, infatti, insieme alle più facilmente individuabili commissioni dovute, componenti di redditività per l’intermediario in virtù di una strutturazione dei flussi finanziari meno favorevole per il cliente. In altre parole, lo strumento finanziario derivato si presenta non par a vantaggio della banca determinando in partenza un mark to market negativo per l’operatore commerciale. Il mark to market deve considerarsi un elemento essenziale dell’oggetto del contratto IRS (Trib. Milano, 13 settembre 2016, n 10049). La mancata indicazione del mark to market, consentendo all’intermediario di occultare il proprio compenso, potrebbe essere sufficiente a determinare la nullità del contratto derivato per mancanza di accordo su un requisito essenziale del compenso ex art. 1709 (Trib. Torino, 17 gennaio 2014, riconosce solamente la responsabilità extracontrattuale Trib. Milano, 13 settembre 2016, n. 10049).

Contrari a questo orientamento si pongono alcuni lodi arbitrali (Lodo arbitrale, Milano 28/07/2016) secondo i quali detti costi impliciti non snaturano la causa del contratto o producono la indeterminatezza dell’oggetto determinandone in entrambi i casi la nullità. Detti costi implicano semplicemente un dovere di trasparenza nei confronti del cliente e dunque, in mancanza di loro indicazione nel contratto, l’intermediario ne risponde contrattualmente qualora addebiti un costo implicito occulto.

Le clausole che prevedono un versamento di una somma di denaro in favore del contraente che parte da una situazione di svantaggio – con up front – qualora il mark to market di uno strumento derivato non sia pari a zero(derivato non par) non rendono di per sé nullo il contratto, ma è necessario verificare caso per caso se il concreto assetto dei rapporti negoziali predisposto dalle parti sia lecito e persegua o meno interessi meritevoli di tutela (Cass., 28 luglio 2017, n. 18781). Quand’anche si ritenesse che l’up front costituisca un rapporto di finanziamento, la causa aleatoria del derivato e la causa del sottostante rapporto di finanziamento rimangono autonome e distinte senza essere snaturate dal collegamento trai due rapporti e senza alcuna alterazione del rischio a carico dell’operatore commerciale (Cass., 28 luglio 2017, n. 18781).

3. La dichiarazione di operatore qualificato ex art. 31, I Regolamento intermediari

Il secondo tema centrale per le vicende qui in discussione riguarda la validità della dichiarazione di operatore qualificato. Il regime pre MiFID suddivideva i clienti degli intermediari finanziari in due categorie: i clienti al dettaglio e gli operatori qualificati. Tale classificazione incideva sull’intensità delle tutele accordate dalla legge e consentiva, sul piano teorico, agli operatori qualificati di accedere a servizi e prodotti di investimento ad un minor costo, proprio in ragione del minor costo di protezione. In particolare, si fa riferimento all’art. 31, Regolamento Consob n. 11522, laddove include nella nozione di operatore qualificato «ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante». In virtù di una prassi consolidata e diffusa, molti clienti venivano così promossi ad operatore qualificato anche quando in concreto tale cliente non potesse effettivamente ritenersi tale. Sul punto si è dunque sviluppato un dibattito, sia in giurisprudenza che in dottrina, riconducibile essenzialmente a due approcci: uno formalista, secondo cui l’intermediario non ha alcun onere di verificare la corrispondenza della dichiarazione del soggetto rispetto al dato reale, l’altro, per converso, più sostanziale. La Corte di Cassazione trova una soluzione di equilibrio (a partire da Cass. 26 maggio 2009, n. 12138 e confermato di recente Cass. 4 aprile 2018, n. 8343) ponendo alcuni importanti punti fermi sulla vexata quaestio in parola. In primo luogo, la semplice dichiarazione sottoscritta dal legale rappresentante che la società disponga della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari costituisce elemento di prova per il giudice ed esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche qualora non siano ravvisabili elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario stesso. Tale dichiarazione, poi, non ha valore confessorio, ma piuttosto di presunzione semplice e pertanto il cliente potrà in sede di giudizio produrre allegazioni specificatamente dedotte e dimostrate circa la conoscibilità in concreto da parte dell’intermediario delle circostanze dalle quali desumere la reale situazione in cui versi l’investitore nel momento in cui sottoscrive la dichiarazione (App. Milano, 14 gennaio 2015). In caso contrario, la dichiarazione può costituire argomento di prova anche come unica e sufficiente fonte di prova. In altre parole, qualora si voglia sostenere la sostanziale discordanza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione reale, ricade sul cliente l’onere di provare ogni circostanza da cui desumere la non veridicità del contenuto della dichiarazione di operatore qualificato.

4. Conclusioni

In conclusione, le sentenze della Corte di Cassazione in argomento confermano la nullità degli strumenti derivati OTC, segnatamente swap, per difetto di causa. Ai fini del giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. è necessario che il giudice tenga conto delle norme dell’art. 21 TUF, ritenute imperative e inderogabili, e dell’art. 26, I Regolamento Intermediari, norma estranea alla sottrazione di disciplina che opera per l’effetto della dichiarazione di operatore qualificato. A queste norme, si aggiungono le prescrizioni approntate dalla Determinazione Consob del 26 febbraio 1999 in relazione alle operazioni di copertura. In altre parole, nell’ipotesi di una operazione conclusa per finalità di copertura, perché il contratto di derivato OTC sia meritevole di tutela, e dunque sussista la sua causa concreta, si deve considerare il comportamento della banca alla luce delle norme appena citate. Anche gli strumenti derivati sottoscritti per finalità speculative sono di per sé validi, trattandosi di contratti aleatori per i quali è espressamente esclusa l’applicabilità del 1933 c.c. (art. 23, co. 5, TUF). Relativamente a questi ultimi contratti, rimane incerto il perimetro entro cui il giudice possa muoversi per svolgere in controllo circa la meritevolezza della tutela ex art. 1322 c.c. Se da un lato, infatti, la presenza di un’alea bilaterale – anche se non equamente distribuita – rimane imprescindibile, per altro verso, il difetto di informazione da parte dell’intermediario sugli esatti termini del rischio (e quindi la loro presenza del contratto come elementi che ne definiscono la razionalità dell’alea) non sembra al momento trovare riscontro chiaro nelle sentenze di legittimità. Rimane il merito di tale orientamento giurisprudenziale di fissare dei criteri per il giudizio ex art. 1322 che prescindono dalla finalità per cui è stato sottoscritto lo strumento sia essa di copertura o meno.

 

 

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