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Attualità

Oneri fidejussori per rimborsi IVA: al contribuente spetta il ristoro

26 Marzo 2019

Avv. Fabio Tullio Coaloa, Partner, Avv. Andrea Bonaria, STS Deloitte

CTR Torino, Sez. II, 22 marzo 2018, n. 545 – Pres. Masia, Rel. Valero

Di cosa si parla in questo articolo

Il riconoscimento degli oneri fideiussori sostenuti dai soggetti passivi IVA in relazione alla prestazione di garanzie ai fini del rimborso c.d. “accelerato” ex art. 38-bis d.P.R. n. 633/1972 continua a far discutere.

Come noto, il legislatore è intervenuto sulla materia con la riforma di cui all’art. 7 L. n. 167/2017, c.d. Legge Europea 2017, introducendo una limitazione forfetaria delle somme che possono essere ristorate ai contribuenti in tali circostanze, in misura pari allo 0,15% dell’importo garantito[1], a partire dalle richieste di rimborso fatte con la dichiarazione annuale IVA relativa all'anno 2017 e dalle istanze di rimborso infra-annuale relative al primo trimestre 2018.

Purtuttavia, con riferimento al regime previgente al 2018, a fronte di alcune recenti sentenze di primo grado, peraltro non tutte pubblicate (cfr., ad es. Comm. Trib. Prov. Milano, n. 6323/2017), in cui i giudici di merito hanno negato la spettanza del diritto al rimborso di tali oneri, se ne sono contrapposte altre favorevoli ai contribuenti (cfr. ad es. Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, n. 279/2017): a quest’ultimo filone, va ascritta altresì la sentenza n. 545/2018 della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte – oggetto del presente contributo – anch’essa non pubblicata, che ha accolto le ragioni del ricorrente sulla base di una motivazione pienamente condivisibile.

In via preliminare, va osservato che sino a prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 L. n. 167/2017 la materia de qua era interamente disciplinata dall’art. 8 co. 4 L. n. 212/2000, in base al quale l’Erario è tenuto a rimborsare il costo delle fideiussioni che il contribuente ha dovuto richiedere per ottenere, fra l’altro, il rimborso dei tributi, quando sia stato definitivamente accertato che l’imposta non era dovuta o era dovuta in misura minore rispetto a quella accertata.

Tale disposizione esprime il principio della tutela dell’integrità patrimoniale: invero, “qualora il credito da garantire non dovesse in effetti concretizzarsi, anche la fideiussione che lo accompagna perde la sua stessa valenza economica, e quindi il costo sostenuto per quest’ultima diviene un pregiudizio economicamente ingiustificato per colui che lo ha sostenuto, e cioè il contribuente”[2].

Con specifico riferimento, poi, al requisito del definitivo accertamento enucleato nella disposizione statutaria, è stato evidenziato che per le garanzie in questione “il "definitivo accertamento" si identifica con il decorso del termine per l'accertamento senza che l'ente impositore abbia formulato alcuna pretesa di restituzione delle somme rimborsate, o comunque di ulteriori pagamenti relativi alla medesima imposta ed al medesimo presupposto cui il rimborso si riferiva”[3] (cfr. anche Comm. Trib. Prov. Bergamo, n. 133/2017).

La portata della disposizione statutaria era stata chiarita in passato dalla Cass. Sez. V, n. 16409/2015, a mente della quale “la norma comprende i costi di tutte le fideiussioni che il contribuente ha richiesto, dovendosi intendere l’espressione “ha dovuto richiedere” con riferimento all’onere della richiesta della fideiussione in rapporto allo scopo perseguito[4].

Più precisamente, a favore della rimborsabilità di tali oneri, era stato osservato che “stabilito dunque che la pretesa accessoria vantata dal contribuente debba esser necessariamente collegata ad un rapporto tributario in essere, deve anche coerentemente ritenersi che essa possa trovare il proprio fondamento in una qualsiasi fase del rapporto stesso, e quindi anche con riguardo alla relativa fase estintiva, la quale non coincide necessariamente con il definitivo accertamento del tributo, ma concerne anche gli effetti che derivano da quest’ultimo[5].

La giurisprudenza di merito sviluppatasi successivamente in senso favorevole ai contribuenti ha poi precisato, riprendendo le argomentazioni della Cassazione, che non è fondata la distinzione tra rimborso IVA cd "accelerato" e altri rimborsi, come quello relativo a contenzioso pendente, posto che tutti devono intendersi coperti dall’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 8 co. 4 L. n. 212/2000(cfr. ad es. Comm. Trib. Prov. Bologna, n. 325/2018; Comm. Trib. Prov. Reggio Emilia, n. 279/2017). Del resto, “il mancato riconoscimento del rimborso di tali oneri si risolverebbe in una ulteriore tassazione a carico dei contribuenti che si trovano in una posizione creditoria nei confronti dello Stato, penalizzandoli ingiustamente rispetto ad altri” (cfr. Comm. Trib. Prov. Bergamo, n. 133/2017).

Cionondimeno, negli ultimi anni si è fatto strada un opposto orientamento della giurisprudenza di merito (cfr., ad es., Comm. Trib. Prov. Milano n. 6153/2017; Comm. Trib. Prov. Roma n. 12295/2017; non pubblicate) che ha scientemente assunto una posizione divergente rispetto a quella manifestata dalla Suprema Corte e che si incentra, di fatto, sulla facoltatività del rimborso IVA c.d. “accelerato” ex art. 38-bis d.P.R. n. 633/1972 in luogo di quello ordinario, ex art. 30 d.P.R. n. 633/1972, dal che ne viene fatta derivare la non rimborsabilità degli oneri connesse alle garanzie prestate, in quanto frutto di una scelta del contribuente.

I ragionamenti che precedono non colgono tuttavia nel segno, dal momento che la norma statutaria deve essere letta ed interpretata alla luce delle disposizioni della Direttiva IVA, come interpretate dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

A tal proposito, costituisce principio ribadito in più occasioni quello secondo cui il rimborso dell’IVA può essere eseguito con “modalità [che,ndr] devono segnatamente consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di IVA, il che implica che il rimborso sia effettuato, entro un termine ragionevole mediante pagamento con somme liquide di denaro o in un modo equivalente, e che, in ogni caso, il sistema di rimborso adottato non deve far correre alcun rischio finanziario al soggetto passivo (cfr. C-25/07; C-525/11; C-387/16)[6].

Il soggetto passivo a cui non viene immediatamente erogato il rimborso del credito IVA si trova in una posizione di svantaggio, che sarebbe di per sé contraria al rispetto del principio di neutralità dell’imposta e che, in quanto tale, dev’essere in linea di principio rimediata: questi, infatti, “considerato che non può disporre temporaneamente dei fondi corrispondenti all’eccedenza dell’IVA, sopporta economicamente uno svantaggio che può essere compensato con la corresponsione di interessi, garantendo in tal modo il rispetto del principio di neutralità fiscale (cfr. C-107/10 Enel Maritsa Iztok, par. 53).

Con particolare riferimento alla facoltà di concedere una garanzia a titolo di cauzione a beneficio dell’Erario ai fini dell’erogazione del credito IVA, va osservato che tale strumento non è affatto scevro da profili di criticità, posto che “produce, in realtà, unicamente l’effetto di sostituire l’onere finanziario relativo all’immobilizzazione dei fondi corrispondenti all’eccedenza dell’IVA per la durata del procedimento di verifica […], con quello attinente all’immobilizzazione dell’importo della cauzione” (cfr. C-107/10 Enel Maritsa Iztok par. 60), circostanza che, dunque, alla luce del complessivo assetto normativo e giurisprudenziale venutosi ad assestare, depone necessariamente per il ristoro dell’onere economico patito dal soggetto passivo a cura dell’Amministrazione Finanziaria.

In sintonia con i predetti principi, che – vale la pena ribadirlo – erano già stati fatti propri dalla Cassazione in passato, risulta anche la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Torino, la quale, con una motivazione sintetica, ha rovesciato l’assunto su cui poggia l’orientamento della giurisprudenza di merito favorevole alla tesi erariale, confermando pienamente la posizione della Suprema Corte sulla questione.

In particolare, la CTR di Torino ha dichiarato che “giova ricordare l’insegnamento della Corte di Cassazione espresso nella sentenza n. 16409/2015, del 5/8/2015. In tale pronunzia, a fronte del quesito se il diritto al rimborso previsto dalla prima norma “valga solo per le spese per polizze stipulate obbligatoriamente e dunque non anche per quelle previste dall’art. 38 bis comma 6 DPR 633/72”, di natura facoltativa, la Suprema Corte ha ritenuto che “(…) la norma comprende i costi di tutte le fideiussioni che il contribuente ha richiesto, dovendosi chiaramente intendere l’espressione “ha dovuto richiedere” non nel senso dell’esistenza di un ipotetico obbligo normativo in tal senso, bensì con riferimento alla necessità (onere) della richiesta della fideiussione in rapporto allo scopo perseguito (ottenere la sospensione del pagamento di tributi o la rateizzazione o il rimborso)” (cfr. Comm. Trib. Reg. Torino, Sez. II, n. 545/2018).

Ad ogni modo, anche a prescindere dalla fondatezza dell’orientamento appena richiamato, va detto che gli approdi giurisprudenziali favorevoli ai contribuenti possono giustificarsi anche in base a diverse considerazioni di sistema, avuto riguardo alle esigenze che hanno spinto il legislatore all’introduzione dell’art. 7 L. n. 167/2017.

Invero, è appena il caso di ricordare che la sistematica inosservanza dei principi unionali da parte dell’Italia aveva causato la procedura d’infrazione n. 8040/2013, che il legislatore ha voluto “chiudere” con l’art. 7 L. n. 167/2017[7], come spiegato nella Relazione acclusa alla legge europea 2017[8].

Quantunque la riforma verta sulle richieste di rimborso effettuate a partire dalla dichiarazione IVA annuale 2017 ed infra-annuale 2018, sembra ragionevole, da una parte, ricavarne alcuni importanti corollari idonei a sconfessare ulteriormente l’orientamento della giurisprudenza di merito, recentemente rinvigorito, che propende infondatamente per le ragioni erariali, dall’altra, invece, una necessaria interpretazione adeguatrice, stante la non proprio felice soluzione adottata dal legislatore.

Innanzitutto, e volendo in ogni caso perimetrare l’analisi entro i principi imposti dalla Corte di Giustizia, l’introduzione di una limitazione forfetaria degli oneri rimborsabili sembra implicitamente confermare, a monte, l’esistenza del diritto del contribuente al ristoro del pregiudizio economico patito: da questo punto di vista, la novella non può quindi che intendersi confermativa (anziché preclusiva) dell’applicabilità, in materia, dell’art. 8 co. 4 L. n. 212/2000 – quantomeno con riferimento ai periodi d’imposta precedenti all’entrata in vigore dell’art. 7 L. n. 167/2017 – una diversa interpretazione implicando un netto contrasto con il diritto UE e la stessa procedura d’infrazione.

Sotto altro profilo, soprattutto in ottica futura, l’asserita inapplicabilità dell’art. 8 co. 4 L. n. 212/2000 ai casi di specie, come sostenuto da una certa giurisprudenza di merito sopra menzionata, avrebbe l’effetto paradossale per cui, de iure condito, gli oneri connessi alle fideiussioni relative a rimborsi IVA sarebbero indennizzabili solo in via forfetaria (ovverosia, nella misura dello 0,15%), mentre tutti gli altri non incontrerebbero tale limitazione, con un’inevitabile ed ingiustificata disparità di trattamento tra fattispecie analoghe.

Pertanto, l’esclusione dell’applicazione della norma statutaria per effetto della riforma della legge europea 2017, sulla base di un rapporto di specialità fra norme, non pare condurre a risultati compatibili con i principi unionali, posto che si tradurrebbe, in definitiva, in un’ingiustificata compressione dei diritti dei soggetti richiedenti il rimborso IVA.

Va detto infine che la giurisprudenza UE suggerisce, in linea di principio, il rimborso integrale di tali oneri: l’art. 7 L. n. 167/2017 sembra quindi non esente da profili di incompatibilità con il diritto UE per contrasto con i principi di neutralità e proporzionalità, non contenendo la norma domestica alcuna legittimazione o parametro in base al quale la limitazione forfetaria dell’importo massimo rimborsabile al contribuente possa ritenersi giustificata[9].

V’è da auspicare, quindi, che sulla materia de qua possa definitivamente addivenirsi, a livello domestico, ad una soluzione appagante e coerente con i principi unionali, che valorizzi i principi di neutralità e proporzionalità dell’IVA.



[1] Tale disposizione prevede che: “Ai soggetti passivi dell'imposta sul valore aggiunto (IVA) di cui all'articolo 38-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, che richiedono un rimborso dell'IVA prestando la garanzia richiesta dallo stesso comma è riconosciuta, a titolo di ristoro forfetario dei costi sostenuti per il rilascio della garanzia stessa, una somma pari alla 0,15 per cento dell'importo garantito per ogni anno di durata della garanzia. La somma è versata alla scadenza del termine per l'emissione dell'avviso di rettifica o di accertamento ovvero, in caso di emissione di tale avviso, quando sia stato definitivamente accertato che al contribuente spettava il rimborso dell'imposta”.

[2] Cfr. Varesano “Applicazione dell’art. 8 co. 4 dello statuto del contribuente al costo delle fideiussioni dovute al rimborso delle eccedenze IVA ex art. 38-bis DPR 633/72in Dial. Trib., 2006, 4, p. 582.

[3] Cfr. Fedele “L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente” in Riv. Dir. Trib. 2001, 10, p. 883 ss. Considerazioni non dissimili anche da parte di Varesano, op. cit., p. 582-583.

[4] Tale precedente si poneva in linea di continuità con altri di analogo tenore (cfr. Cass. Sez. V, 19751/2013; Cass. Sez. V, n. 14024/2009).

[5] Cfr. Potito “La Cassazione si pronuncia sul rimborso degli oneri fideiussori” in Rass. Trib., 2009, 5, p. 1456 ss.

[6] Volendo evidenziare la pregnanza di tali principi, sembra opportuno ricordare che già in occasione della riforma di cui al D.Lgs. n. 175/2014 erano state avanzate notevoli perplessità sulla compatibilità comunitaria della disciplina nazionale della prestazione di garanzie per i rimborsi IVA: infatti, “la distanza con la disciplina comunitaria è evidentemente siderale, nella misura in cui si addossano ai contribuenti costi finanziari che compromettono la neutralità dell’IVA e l’esercizio immediato del diritto alla detrazione. Merita notare che la Corte di Giustizia – sulla base del ricordato principio di neutralità, che impone appunto che sia consentito l’immediato esercizio del diritto alla detrazione – ha evidenziato la non conformità alla disciplina comunitaria di discipline nazionali comportanti limitazioni alla possibilità di chiedere il rimborso ben minori di quelle previste dalla normativa nazionale” (cfr. Corso, Maspes “Rimborsi IVA più facili, ma l’Europa è ancora lontana: la cronaca di una morte annunciata” in Il fisco, 2014, 47, p. 4632).

[7] E che, a dire il vero, il legislatore stesso aveva già tentato di superare in passato – evidentemente senza successo – con la riforma di cui al D.Lgs. n. 175/2014, che però, nulla aveva previsto sullo specifico tema oggetto del presente contributo (cfr. amplius, Corso, Maspes, op. cit.; cfr. anche Giuliani, Spera “Adeguamento delle norme IVA alle disposizioni unionali” in il fisco, 2018, 1, p. 25).

[8] Ivi, in particolare, si legge: “l’articolo 7, modificato alla Camera, interviene sulla disciplina dei rimborsi IVA al fine di consentire l’archiviazione della procedura di infrazione 2013/4080, allo stadio di messa in mora ex art. 258 TFUE. Con tale atto la Commissione europea aveva contestato alla Repubblica italiana il mancato rispetto degli obblighi imposti dall’art. 183, paragrafo 1 della direttiva 2006/112/CE, come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE” (cfr. Legge Europea 2017, Schede di Lettura, A.S. n. 2886-A, ottobre 2017).

[9] Questione, peraltro, sulla quale ha già riflettuto anche la giurisprudenza di merito più attenta, secondo cui “[…] a prescindere dalla compatibilità di questa norma (che limita in modo forfetario e incongruo il ristoro) con l’ordinamento comunitario, il principio di diritto è quello della debenza del rimborso” (cfr. Comm. Trib. Prov. Bologna, n. 325/2018).

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