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Giurisprudenza

Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario: la Cassazione supera la distinzione fra rimesse solutorie e ripristinatorie

2 Maggio 2019

Maria Giulia Musardo, Dottoressa di ricerca in Business and Social Law presso l’Università Bocconi e Avvocato presso lo Studio Legale Borlone Papi Rossi e Associati

Cassazione Civile, Sez. I, 9 gennaio 2019, n. 277 – Pres. De Chiara, Rel. Falabella

Di cosa si parla in questo articolo

Con la sentenza pubblicata la Corte di Cassazione si pronuncia per la prima volta (dopo riforma del 2005) sulle condizioni per la revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario, segnando il definitivo superamento della tradizionale distinzione fra rimesse solutorie e ripristinatorie della provvista con statuizioni di principio destinate a valere anche sotto il vigore del nuovo CCI, non innovativo nella parte d’interesse.

Il nuovo art. 67, co. 3, lett. b, L.F. – precisa infatti la Corte – “prescinde dalla natura solutoria o ripristinatoria della rimessa e quindi dal fatto che la stessa afferisca a un conto scoperto o solo passivo, ma impone al giudice del merito di accertare la revocabilità della rimessa stessa avendo riguardo, oltre che alla sua consistenza [quantitativa], alla durevolezza di essa [nel tempo]”. Il fuoco della disciplina è quindi ora incentrato “su di un elemento normativo di novità”, ossia la “persistenza dell’effetto estintivo del debito” desunta“dalla natura consistente e durevole della rimessa”.

Non si potrà, dunque, più fare riferimento alla natura del singolo versamento per stabilire se una rimessa possa essere revocata, ma si dovrà piuttosto accertare se il conto sia stato regolarmente movimentato anche successivamente alla rimessa mediante nuove operazioni di addebito, “con un riutilizzo della somma [accreditata dal correntista]rispondente alle finalità cui assolve il servizio di cassa che il conto corrente bancario è idoneo a svolgere per sua stessa natura”.

Per quanto poi attiene al quantum dell’obbligazione restitutoria gravante sulla banca, la Corte chiarisce che il criterio di calcolo di cui all’art. 70, co. 3, L.F. –ossia la differenza fra il massimo scoperto maturato dal correntista nel periodo sospetto ed il valore residuo della pretesa creditoria alla data di apertura del concorso – individua “solo il limite massimo dell’importo che il convenuto in revocatoria può essere tenuto a restituire”.

Detto differenziale non è, infatti, necessariamente indicativo dell’importo da restituire posto che lo stesso può essere variamente influenzato da accrediti diversi da quelli effettivamente revocabili: è il caso – ricordato dalla Corte – delle rimesse effettuate da un terzo con denaro proprio (sempre che detto terzo non abbia proposto “azione di rivalsa verso l’imprenditore prima della dichiarazione di fallimento” “abbia adempiuto un’obbligazione relativa ad un debito proprio”).

Da ultimo, la Corte ribadisce l’assunto secondo cui per la revoca delle rimesse in relazione al saldo infra-giornaliero e non al saldo della giornata il fallimento ha l’onere di dimostrare il carattere solutorio dei relativi movimenti ricavabile dalla cronologia degli stessi, la quale non può essere desunta dall’estratto conto ovvero dalla scheda di registrazione contabile, in quanto tale ordine non corrisponde necessariamente alla realtà”. In mancanza di tale prova “devono intendersi effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti”.

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