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Editoriali

La “maledizione” Alitalia

22 Maggio 2017

Giovanni Fiori

Professore ordinario di economia aziendale, LUISS Guido Carli; commissario straordinario Alitalia

Di cosa si parla in questo articolo

Il problema Alitalia sembra essere una maledizione: per i diversi governi che da quasi 20 anni se ne devono occupare con ricorrenza quasi matematica, per i contribuenti italiani, ma anche per tutti quegli utenti che sono affezionati alla nostra compagnia di bandiera, che sono in numero molto più elevato di quanto si possa credere ed in buona parte stranieri.

Al cittadino comune potrà sembrare impossibile che da tanti anni esista questo problema senza che venga trovata una soluzione definitiva, in un senso (rilancio) o nell’altro (chiusura). Ma la realtà è molto più complessa di quanto possa apparire a prima vista. Il settore del trasporto aereo è infatti uno dei più difficili e complessi e, secondo uno studio della McKinsey; è il settore che, in un arco temporale di 50 anni, presenta la più bassa profittabilità media rispetto a tutti gli altri settori industriali. Va citata, al riguardo, una famosa battuta di Warren Buffett che a chi gli chiedeva “How to become a millionaire?” (come si fa a diventare milionari?), rispondeva: “You need two steps. First, you have to become a billionaire, and second you have to buy an airline” (Servono due passaggi. Anzitutto, devi diventare miliardario, e poi per diventare milionario devi comprare una compagnia aerea).

Bisogna dire, però, che negli ultimi anni questo quadro è cambiato ed ultimamente le compagnie aeree non sono più un pozzo senza fondo di perdite ma hanno iniziato nuovamente a generare profitti, anche se, proprio negli ultimissimi mesi, la situazione sembra volgere nuovamente verso una fase più critica.

Ma andiamo con ordine. Il mercato dell’aviazione civile si è sviluppato enormemente negli ultimi decenni, soprattutto grazie alla globalizzazione economica ed alla crescente mobilità delle persone, sia per motivi di studio/lavoro che per vacanza. Prima di questa fase di grande espansione, il mercato del trasporto aereo era sostanzialmente un mercato di nicchia, con costi molto elevati e non alla portata della maggioranza della popolazione. Il mercato era controllato da pochi vettori (generalmente le compagnie di bandiera nazionali) che gestivano il traffico in condizioni sostanzialmente di monopolio o oligopolio. Il primo grande cambiamento avviene nel 1978: in quell’anno gli USA decidono una quasi totale de-regulation del trasporto aereo, segnando così la fine dell’oligopolio delle storiche compagnie (tra cui la famosa Pan Am) e consentendo una forte liberalizzazione ed una caduta dei prezzi, che ha consentito da un lato di rendere il trasporto aereo accessibile a tutti ma, dall’altro, ha causato il fallimento di tutte le compagnie aeree storiche (PanAm compresa) che erano strutturate su un modello di business con costi nettamente più elevati ed assolutamente non competitivo rispetto ai nuovi concorrenti.

L’esempio americano è stato molto istruttivo per gli europei che, visto il collasso delle compagnie aeree americane storiche, sono stati molto più timidi nella de-regulation, proprio per paura che le grandi compagnie di bandiera europee potessero essere travolte da una forte apertura del mercato.

La de-regulation è dunque iniziata, in modo timido e graduale, nel 1993, ma non è mai stata coraggiosa come negli USA: basti pensare che esiste tuttora quel limite, davvero anacronistico, che non consente ad alcun operatore non europeo di possedere più del 49% di una compagnia aerea europea; limite che, come vedremo, è una delle tante cause dell’ultimissima crisi dell’Alitalia.

Nonostante, come si diceva, una de-regulation molto blanda, anche in Europa appariva chiaro che il vecchio modello di business delle compagnie di bandiera non avrebbe potuto reggere lungamente. Negli anni ‘90 le compagnie low cost non avevano ancora conquistato grandi spazi (Ryanair, nata nel 1985, trasportava nel 1995 5 milioni di passeggeri contro i più di 100 milioni trasportati oggi), ma l’esempio americano e le pressioni della competizione crescente facevano intravedere quali sarebbero stati gli scenari futuri. A quel tempo Alitalia era una delle più grandi compagnie d’Europa ed era gestita da managers di indubbia qualità. Cempella, l’ad dell’epoca, comprese che il settore andava verso una concentrazione inevitabile, e che le dimensioni dell’Alitalia di allora erano, per quanto grandi a livello europeo, comunque troppo piccole per potere competere in un mercato globale e gradualmente sempre più liberalizzato. Nel 1999 fece un accordo con KLM (la compagnia di bandiera olandese) per una fusione tra le due compagnie, che avrebbe dato vita ad uno dei maggiori player europei. KLM era essenzialmente specializzata nel cargo con un hub (Amsterdam Schiphol) assolutamente saturo e con poche possibilità di espansione ulteriore. La fusione, come è noto, prevedeva il trasferimento di gran parte del traffico a Milano Malpensa, la privatizzazione di Alitalia ed altre condizioni. Condizioni che, però, l’Alitalia, il nostro governo ed i nostri enti locali, in gran parte non rispettarono. In particolare, non venne rispettato l’accordo che prevedeva la drastica riduzione del traffico da Milano Linate ed una sensibile riduzione del traffico da Roma Fiumicino. Inoltre, venne continuamente ritardata la privatizzazione della nostra compagnia. Gli olandesi dunque decisero di rompere l’accordo, anche pagando una penale di 300 milioni, e la fusione sfumò.

Sono tra coloro, e sono molti, che ritengono che la vera fine dell’Alitalia debba essere fatta risalire a quella mancata fusione. Se si fosse fatta la fusione con KLM, oggi l’Alitalia sarebbe al posto di AirFrance e, probabilmente, AirFrance sarebbe al posto di Alitalia. La mancata fusione ha condannato Alitalia ad un ruolo marginale in un mercato aereo che poi ha subito ulteriori colpi gravissimi. Poco dopo la mancata fusione con KLM, infatti, nel 2001 l’attentato alle Torri Gemelle ha comportato un colpo mortale per l’intero settore: solo in Europa sono fallite la storica SwissAir (la compagnia di bandiera svizzera) e la Sabena (compagnia di bandiera del Belgio).

Da quel momento in poi l’Alitalia ha “tirato a campare”, in una situazione di crescente difficoltà, con perdite sempre più abnormi, un modello di business totalmente inadatto al nuovo scenario, nel quale le low cost iniziavano a dominare nel breve-medio raggio, con costi di gestione insostenibili ed un management sempre meno all’altezza. Nel 2008, come è noto, avviene dapprima il tentativo di vendita ad AirFrance, con il successivo stop da parte del Governo e l’avvio della (prima) procedura di amministrazione straordinaria.

Si è molto parlato di un ipotetico grave errore commesso, a proposito della mancata vendita ad Air France che, secondo molti, avrebbe consentito il definitivo salvataggio di Alitalia.

Di certo, quell’operazione avrebbe consentito di evitare un ulteriore esborso per i contribuenti italiani; tuttavia, resto convinto che, con la vendita ad Air France, Alitalia sarebbe stata ridotta al rango di una compagnia regionale, del tutto subordinata alle strategie di AirFrance KLM, e riducendo il minimo indispensabile il traffico a lungo raggio diretto da e verso l’Italia.

Che la strategia di AirFrance fosse questa era intuibile non solo dal modello di business e dal piano industriale presentato, ma anche dal comportamento concreto di Air france nel momento in cui, avviata la procedura di amministrazione straordinaria e la vendita alla cordata di imprenditori che ha dato vita a CAI, AirFrance è entrata in CAI con il 25% ed è stata, di fatto, l’artefice dell’ulteriore ridimensionamento dei voli a lungo raggio, della scellerata focalizzazione sulla Roma-Milano in piena epoca di alta velocità ferroviaria, e di altre strategie con il palese intento di ridimensionare Alitalia per poterla comprare ridotta ed a prezzi di saldo dopo qualche anno.

Come scrivono tutti gli osservatori, non vi è dubbio che il folle ridimensionamento del lungo raggio, voluto dapprima per arginare la crisi del 2001 e proseguito sotto l’influenza di Air France da CAI, sia stata la principale motivazione dell’attuale crisi dell’Alitalia.

Il mercato del trasporto aereo è ormai polarizzato in due segmenti, quello dei low-cost carriers e quello delle c.d. legacy carriers (le compagnie tradizionali).

Competere con le low cost sul breve raggio è impossibile, sia per l’indubbia esperienza e capacità di questi operatori ma anche per l’altrettanto indubbia “concorrenza sleale” che gli stessi attuano, assumendo il personale con contratti a cottimo o a tempo determinato, con contratti di diritto irlandese o comunque fiscalmente meno onerosi. Si aggiunga a ciò il fatto che, in Italia, questi operatori godono di enormi agevolazioni da parte degli Enti Locali, che consentono loro di ottenere margini impensabili per la compagnia di bandiera. Da questo punto di vista, l’Italia è il Paese più “de-regolato” d’ Europa, ed il risultato è che mentre in Francia e Germania la quota di mercato delle low-cost è ancora molto bassa (intorno al 10%) e queste compagnie low cost non hanno alcun accesso ai main hubs, da noi la quota di mercato delle low cost è ormai pari a quasi il 50% e le compagnie volano tranquillamente in tutti gli aeroporti italiani, compresi Fiumicino, Malpensa, Venezia ecc.

In altre parole, mentre gli altri governi cercano di proteggere le compagnie aeree nazionali nel modo corretto, e cioè rendendole più efficienti e proteggendole, nei limiti del possibile, dalla concorrenza sleale, in Italia si opera in modo schizofrenico: ci si disinteressa per anni della compagnia di bandiera, del suo management, delle sue prospettive, del mercato aereo in generale, del sistema aeroportuale, salvo poi intervenire con rattoppi (ovviamente sempre più deboli) ogni volta che Alitalia, anche a causa di questa giungla, arriva al punto di non ritorno.

Molti, compreso chi scrive, avevano sperato che con l’avvento di Etihad il problema Alitalia potesse essere avviato verso la soluzione finale. Purtroppo così non è stato e, con il senno di poi, ne possiamo analizzare le ragioni.

Porrei come prima ragione, l’anacronistico tetto del 49% di cui si parlava prima. E’ evidente che se Etihad è socio di minoranza di una compagnia, preferirà sempre utilizzare il traffico di Alitalia più per alimentare i voli di Etihad che per uno sviluppo proprio. Inoltre, con questo modello di governance è evidente che, se le cose dovessero andare male (come sono effettivamente andate), un’eventuale ricapitalizzazione della compagnia diventa a rischio poiché è necessario che il 51% del capitale venga apportato da soci differenti, che nel caso di Alitalia erano soci non industriali come le banche. Soci che, evidentemente e legittimamente, non possono essere interessati ad investire più di quanto abbiano già fatto e con ipotesi di ritorni dell’investimento aleatorie ed a lungo termine.

A ciò si aggiungano errori e promesse mancate, sia da parte di Etihad che da parte del governo. Etihad non ha contribuito ad incrementare i voli a lungo raggio se non in misura inferiore alle aspettative e soprattutto senza aumentare il numero di aerei, che è il vero grave limite dell’Alitalia attuale. Etihad ha certamente contribuito a migliorare il servizio, rendendolo uno dei migliori di Europa, ma ciò evidentemente non basta a risolvere i nodi di un business non più competitivo.

Credo invece che ben poco possa essere rimproverato ai dipendenti di Alitalia. I privilegi del passato (dei quali molto scorrettamente hanno parlato i media) sono ben lontani dalla realtà attuale: gli stipendi Alitalia sono in linea se non più bassi dei concorrenti e l’unico problema vero è che, soprattutto i dipendenti di terra, sono ancora in esubero. Ritengo dunque che sia stato un grave errore che la trattativa sindacale sia stata incentrata sui livelli salariali oltre che sul numero di esuberi, poiché ritengo invece che sarebbe stato opportuno concentrarsi solo su quest’ultimo aspetto. Per il resto i dipendenti Alitalia non hanno particolari privilegi. Certo che, rispetto ai dipendenti Ryanair, hanno contratti a tempo indeterminati, pagano le tasse in Italia ed hanno i sindacati che li proteggono, mentre a Ryanair tutto ciò semplicemente non esiste. E su questa concorrenza gravemente sleale bisognerebbe riflettere a lungo.

Quali sono gli scenari futuri? Bisogna partire da due punti fermi. Il rilancio in Alitalia deve prevedere il netto incremento del lungo raggio e l’utilizzo del breve-medio raggio quasi esclusivamente per alimentare il lungo raggio. Non si tratta certo di una novità: è il modello di business delle principali legacy carriers. Un solo aereo a lungo raggio costa circa 200 milioni, ed è dunque evidente che servono enormi investimenti per sviluppare il business del lungo raggio che, teniamolo presente, richiede anche molto tempo per far si che la rotta diventi profittevole.

Alitalia stand alone dunque non può avere futuro, ed il futuro si ha esclusivamente se Alitalia viene inserita in un forte network internazionale. Attualmente i rumours si concentrano su due ipotesi: un possibile interessamento di Lufthansa (magari in partnership con Etihad) per accaparrarsi il mercato italiano del traffico aereo che, ricordiamolo, resta uno dei più ricchi ed interessanti d’Europa e del mondo, ed un altro interessamento di Ryanair che utilizzerebbe Alitalia per far volare nel lungo raggio i suoi 100 milioni di passeggeri nel breve.

Il sospetto, in entrambi i casi, è che l’interessamento per Alitalia sia simile a quello della Air France dell’epoca, e cioè quello di eliminare un concorrente.

Vedremo come andrà a finire. Dovremmo sperare tutti in una soluzione positiva perché, a dispetto di quanto dicono molti osservatori un po’ superficiali, non esiste nessun grande Paese al mondo che non abbia una compagni di bandiera forte, e pensare che lo spazio di una compagnia di bandiera possa essere occupato da vettori stranieri o low cost e miope se non scellerato. Una compagnia di bandiera è il biglietto da visita per il turismo e per il business ed è essenziale nella politica industriale di un Paese. Già: quello politica industriale che ormai in Italia non si fa più da tempo, e che è stata sostituita con la “politica del rattoppo”.

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