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Tesi di laurea

OPA ostile e tecniche di difesa

1 Aprile 2019

Edoardo Pistone

La finalità che si propone il presente elaborato è quella di verificare gli obblighi legali pendenti su entrambe le parti della “contesa” per il controllo nel corso di un’offerta pubblica di acquisto, alla luce dell’odierna normativa, concentrando, nell’ultima parte, l’attenzione sugli “spazi di manovra” che il nostro legislatore ha deciso di concedere alla società target in funzione difensiva dall’offerta.

Come è noto, l’acquisto di una porzione rilevante delle azioni (o degli strumenti finanziari dotati del voto) emessi da una società quotata rende possibile l’acquisizione (ostile) del controllo dell’emittente. A questo proposito, al ricorrere di talune condizioni indicate negli artt. 105 ss. T.U.F. il legislatore ha deciso di imporre l’offerta al pubblico, quale strumento di regolamentazione dei trasferimenti del controllo. Sono stati pertanto analizzati gli oneri imposti all’offerente dall’art.106, concentrandosi in particolare sul concetto di partecipazione rilevante, sulla natura totalitaria e sul prezzo dell’offerta, sulla rilevanza assegnata ai diritti di voto nella nuova formulazione della norma, e sulle problematiche connesse alla scelta circa la fissazione della soglia rilevante i fini dell’obbligo di lanciare l’OPA.

Non potendo l’ostilità essere considerata una categoria giuridica predefinita dall’ordinamento e non avendo il nostro legislatore individuato neanche in via terminologica l’ipotesi in cui un’offerta debba considerarsi tale, è apparso necessario, inoltre, comprendere se di ostilità si potesse parlare solo in relazione ad un’OPA non approvata dagli amministratori della società emittente (o, secondo alcuni, dalla maggior parte degli azionisti), oppure si dovessero prendere in considerazione anche altri fattori come la reale possibilità di successo dell’offerta o la comparazione fra il prezzo offerto ed i corsi di mercato dei titoli.

In origine previsto come una mera scelta facoltativa dell’organo di gestione, l’art. 103, co. 3 e 3-bis T.U.F. (integrato dall’art. 39 del Reg. Consob 11971/99 per ciò che attiene al contenuto del documento) ha portato il comunicato della società target, diffuso in pendenza di offerta, ad assumere una connotazione obbligatoria. Ciò, facendo leva sull’idea di fondo che la contrapposizione tra flussi informativi originati da opposti interessi costituisca la via migliore per la formazione di un’opinione più corretta ed obbiettiva.Gli azionisti dovranno, segnatamente, essere posti in condizione di valutare se aderire all’offerta, monetizzando il premio riconosciuto, ovvero se non aderirvi, confermando allora la loro fiducia nelle capacità gestorie degli amministratori della società bersaglio. In questo contesto, tuttavia, si evidenzia come esso rappresenti anche il più semplice ed accesibile tra gli strumenti atti a contrastare l’offerta, attraverso il noto modello delle “factual defenses”. La tutela degli oblati di fronte al rischio di una valutazione interessata viene pertanto rimessa, in via indiretta, alla disciplina del conflitto di interessi ex art.2391 c.c., che troverebbe applicazione nel caso, particolarmente complesso da provare, in cui tale valutazione rifletta un interesse personale degli amministratori in conflitto con quello della società; ed, in via diretta, al regime di responsabilità proprio degli amministratori, ex art.2395 c.c. (ed in alcuni casi ex art.2043 c.c. nei confronti del terzo offerente danneggiato).

L’attenzione è poi rivolta ad un breve raffronto con il sistema di common law Statunitense, ed in particolare Nord Americano, al fine di identificare le differenze disciplinari tra questo ed il nostro ordinamento, nella considerazione che l’utilizzo delle tender offers quale strumento privilegiato di scalata societaria è nato e si è sviluppato proprio in questa realtà giuridica. A tal proposito, la nostra analisi giunge a rintracciare il principale riferimento in merito al concetto di “tender offer” nel caso Wellman v. Dickinson, mediante il quale la U.S. District Court for the Southern District of New York ha formulato il cosiddetto “eight-factor test” necessario per verificare se una transazione costituisca o meno un’offerta pubblica.

Avendo così analizzato la disciplina che il modello nordamericano ha riservato alla tender offer, si volge lo sguardo alle cosiddette “defensive tactics”. Strumenti di difesa di cui la società target dispone nel momento in cui diviene soggetto passivo di un tentativo di scalata, o predisposti ancora prima di esso, allo scopo di impedire, disincentivare o cercare di trarre il maggior vantaggio possibile dall’acquisizione del controllo da parte dell’offerente. Alla seconda tra le due categorie appartengono le principali e più note tra tali strategie, i “piani di attribuzione dei diritti agli azionisti”, meglio conosciute come “poison pills”. Strategie difensive “pre-bid” ideate nella prima metà degli anni ottanta con l’obiettivo di costringere l’offerente ostile a dover contrattare con il board della target a meno di non voler vedere la sua offerta bloccata, sono divenute oggetto della nostra analisi per la loro capacità di riallocare il potere di prendere decisioni durante la pendenza di un’offerta ostile, spostandolo dagli azionisti verso i managers.

Molta attenzione è quindi rivolta ai casi giurisprudenziali riguardanti i cosiddetti “fiduciary duties”: espressione dell’obbligo stabilito per i corporate directors di tutelare al meglio gli interessi della società e di agire con “care” and “loyalty”,operando cioè in buona fede, con quel quantum di diligenza che si ritiene debba adottare un’”ordinarily prudent person” che eserciti quel tipo di attività professionale ed evitando o sottoponendo a controllo le situazioni di conflitto di interessi che possono sorgere durante la loro gestione della società. Per ciò che attiene all’oggetto della nostra analisi, proprio in un contesto di ostilità tali duties assumo particolare rilevanza, essendo l’armamentario difensivo espressione di un probabile contrasto tra l’interesse degli amministratori a non procedere al passaggio del corporate control e la diversa volontà degli azionisti, interessati, al contrario, ad aderire ad un’offerta per loro vantaggiosa.

Da ciò prende le mosse un’analisi conclusiva sui due modelli prescelti che pone in risalto come all’esposta posizione della giurisprudenza nordamericana, che protegge in buona sostanza le defensive tactics, faccia eco una decisa diffidenza del nostro legislatore nei confronti delle operazioni difensive, tradizionalmente sottoposte alla passivity rule (ora pur mitigata dai recenti interventi normativi).

L’ultima parte del lavoro si concentra sull’analisi della regolamentazione della regola di neutralità (“Breaktrough rule”) e della regola di passività (“Passivity rule”) nel modello italiano.

Per ciò che attiene alla regola contenuta nell’art.104-bis, la nostra analisi ne ha evidenziato il peculiare carattere “redistributivo” in ordine ai diritti sociali. Questa non si limita infatti a riproporre un’esigenza verso un’autorizzazione assembleare per decisioni ascrivibili alla gestione dell’impresa, ma produce una peculiare “disattivazione” degli effetti di previsioni statutarie o parasociali come conseguenza della scelta di investimento di un soggetto, solitamente, estraneo all’ambito di applicazione delle stesse.

Riguardo alle difese successive ed alla regola di passività,nell’ordinamento italiano, la determinazione di quali siano le difese da cui gli amministratori debbano astenersi in pendenza dell’offerta, salvo autorizzazione dell’assemblea, è rimessa dal comma 1, dell’art. 104 TUF all’applicazione di un criterio di tipo “teleologico” (“atti o operazioni che possano contrastare il perseguimento degli obiettivi dell’offerta”): una definizione aperta e di tipo funzionale che fa gravare sugli amministratori la responsabilità della valutazione dell’appartenenza del concreto atto od operazione al genere delle difese e l’onere di convocare l’assemblea per l’eventuale approvazione.

L’odierna possibilità per gli statuti di derogare, “in tutto o in parte”, al regime “legale” di passività è conseguenza diretta della scelta compiuta dal legislatore italiano con il D.Lgs. 146 del 2009 che, permettendo l’opt-out statutario in merito, ammette l’introduzione di modelli “convenzionali” alternativi a quello di default. Tale approccio ha richiesto di affrontare la questione della delimitazione del perimetro entro cui lo statuto possa “modellare”, secondo le esigenze della società, la disciplina della passività. In tal senso sono in astratto prospettabili scelte sia di segno negativo che di segno positivo, tese rispettivamente a depotenziare o, al contrario, ad arricchire ed integrare la regola di passività “raccomandata” dal legislatore.

Infine riguardo alla valutazione dell’operato dell’organo amministrativo e assembleare in relazione all’adozione di misure difensive, si conclude nel senso dell’inidoneità dell’art.104 TUF a svolgere un funzione diretta quale fonte normativa in grado di selezionare un comportamento legittimo da uno causa di invalidità negoziale o responsabilità, avendo quest’ultimo il compito di fornire il sostrato di interessi e posizioni giuridiche tutelate, ma non le regole procedimentali dell’organizzazione societaria e i rimedi in caso di violazione. La valutazione andrà così condotta secondo gli strumenti ordinari del diritto societario, divenendo la verifica di legittimità dell’operato oggetto di un giudizio di mera conformità all’interesse sociale (potenziale o attuale) della target: parametro doveroso per gli amministratori e non strettamente cogente per i soci, ma piuttosto fonte di instabilità del deliberato assembleare ex art. 2373 c.c. in caso di conflitto del socio determinante. 

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