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Tesi di laurea

Le società fiduciarie e il controllo pubblico. La vigilanza della Banca d’Italia. Dal concetto di fiducia all’analisi comparata con la regolamentazione fiduciaria in Svizzera e San Marino.

16 Febbraio 2018

Ludovico Mainieri

La presente indagine, come già esplicitato dal titolo, ha ad oggetto le società fiduciarie ed il correlato sistema di vigilanza pubblica. Essa prende lo spunto dalla recente novella legislativa che ha portato anche la Banca d’Italia a sorvegliare talune, qualificate, categorie di fiduciarie.

Ai fini di una lettura il più possibile esaustiva, l’analisi è partita dal concetto base di fiducia e si è conclusa con la comparazione di alcune regolamentazioni straniere.

Di conseguenza, il primo interrogativo che ci si è posti ha riguardato la disciplina positiva della fiducia nel nostro ordinamento. Trattasi di un istituto assai antico, già presente in epoca romana e della cui qualificazione civilistica si discute da tempo. Le Institutiones di Gaio, difatti, già distinguevano tra negozio fiduciario a scopo di gestione patrimoniale (fiducia cum amico) e negozio fiduciario a scopo di garanzia (fiducia cum creditore). Cancellata dal Digesto perché desueta, la fiducia sopravvisse nel corso dei secoli grazie al suo peculiare, duttile, carattere di segretezza. Specie in riferimento al negozio mortis causa, tale negozio consentiva di aggirare i vari divieti successori posti di volta in volta dal legislatore. Nel corso del XIX secolo, la dottrina recuperava l’istituto fornendone due diverse chiavi interpretative. Da un lato la visione “romanistica”, che ravvisava il trasferimento al fiduciario di una proprietà “piena” sul bene, obbligandolo poi al ritrasferimento verso il fiduciante (c.d. pactum fiduciae). Dall’altro quella “germanistica”, dove si riconosceva al fiduciario la sola legittimazione ad esercitare in proprio nome un diritto del fiduciante, mentre questi ne conservava la proprietà.

Caratterizzandosi come una proprietà limitata nei modi (v. raggiungimento di scopi predeterminati per il fiduciario) e nei tempi (obbligo di ritrasferimento), il relativo riconoscimento non poteva risultare agevole nei sistemi di Civil Law, fondandosi questi ultimi su un concetto di proprietà piena ed assoluta, nonché sul principio del numerus clausus dei diritti reali.

Difficoltà che spinsero il codice civile del ’42 a non effettuare alcuna scelta tra le tesi sopra esposte. Infatti l’unico riferimento ivi presente è la disposizione fiduciaria testamentaria dell’art. 627, norma che si limita ad escludere l’accertamento giudiziario per provare che le disposizioni nel testamento siano effettuate solo a scopo fiduciario. L’assenza di una disciplina positiva della fiducia ha dunque costretto dottrina e giurisprudenza ad un ruolo di supplenza. Da ciò è disceso il controverso istituto denominato “negozio fiduciario”: macro categoria in cui vengono generalmente a rientrare gli atti di trasferimento fiduciario dei beni, da un soggetto (fiduciante) ad un altro (fiduciario). Un contratto atipico legittimato dall’autonomia contrattuale concessa alle parti per realizzare interessi meritevoli di tutela (1322 c.c.).

Al contrario, l’elasticità delle norme consuetudinarie che caratterizza i Paesi di Common law ne ha permesso una più diffusa applicazione mediante l’istituto del trust (la cui traduzione significa, appunto, fiducia). Qui infatti il disponente non nutre alcun titolo sui beni conferiti al trustee per proteggerli e destinarli a certi scopi o soggetti, cosicché la vera controparte del trustee sono i beneficiari (e non il fiduciante). Consapevole dell’ampio ricorso fatto dai concittadini di detto istituto, il nostro legislatore è stato fra i primi, fra quelli di Civil Law, a ratificare nel ‘89 la “Convenzione dell’Aja sugli effetti del trust”. In tal modo è divenuto ammissibile, salve date condizioni, stipulare atti di trust in Italia basati su regolamentazioni estere.

Il problematico accoglimento del concetto giuridico di fiducia nell’ordinamento italiano non ha comunque impedito di riconoscerne positivamente l’esercizio in forma d’impresa dell’attività: di amministrazione, di gestione e di revisione contabile. In altri termini le società fiduciarie. Infatti, la principale norma sulle stesse è la n. 1966 del ’39, emanata cioè in pieno periodo di leggi razziali e collaterali inibizioni ai commerci. Con essa il nostro Paese ha di fatto previsto uno dei primi casi di separazione della proprietà sostanziale (rimanente in capo al fiduciante) e intestazione formale (trasferita in capo alla fiduciaria). Si è dovuto invece aspettare fino al 16 gennaio ‘95, col Decreto del Ministero dell’Industria (e quindi un provvedimento di natura secondaria) per vedere scritto nero su bianco che per l’operatività di dette società fossero salve le norme del mandato.

Ad ogni modo, il legislatore del ’39 non si limitò a prevederne una struttura professionalmente qualificata, ma stabilì altresì un regime di controllo pubblico sulle medesime, affidata all’ex Ministero delle Corporazioni (oggi MISE). Più precisamente, predispose una vigilanza “bifasica”, svolta cioè tanto sulla verifica di predeterminate condizioni per poter svolgere l’attività (come ad es. onorabilità e reputabilità degli esponenti e dei partecipanti), quanto sull’esercizio ex post da parte delle fiduciarie (ad es. tramite indagini sui bilanci e ispezioni in loco). Sostanzialmente, un compito assai complesso per una duplice ragione. Da un lato l’ampio numero di soggetti da vigilare (281 società in data 12 ottobre 2017) e le scarse risorse a ciò deputate, dall’altro il fatto che tale attività appare effettivamente ultronea rispetto ai compiti istituzionali del Ministero. Tanto più che, di recente, la Cassazione sembrerebbe aver sancito il “principio della responsabilità civile del vigilante” per i danni prodotti da omessa o non corretta vigilanza. Tanto è vero che alcune vicende processuali sul tema (v. fiduciarie Reno e Previdenza S.p.A.) hanno portato per ben due volte -2001 e 2009- alla condanna risarcitoria multimilionaria proprio dell’attuale Ministero dello Sviluppo Economico verso i fiducianti danneggiati.

Tale quadro normativo, fino alla recente novella dell’art. 199 del d.lgs. 58/’98 –c.d. T.U.F.- e dell’art. 106 del d.lgs. 385/’93 –c.d. T.U.B.-, è rimasto pressoché invariato, eccetto per due aspetti. Il primo è che le fiduciarie esercitanti la revisione contabile sulle società quotate (v. D.P.R. 316/’75) e anche quelle che si occupano di gestione patrimoniale (fin dalla legge 1/’91) e comunemente dette “fiduciarie dinamiche” sono state fatte uscire dal perimetro della Magna Charta del ‘39 e soggiacciono invece ad uno speciale regime di sorveglianza della Consob. Il secondo è che le leggi 430/’86 e 148/’87 hanno imposto una particolare procedura concorsuale, ossia la liquidazione coatta amministrativa. Ne sono soggette le imprese fiduciarie: insolventi, o che esercitano l’attività senza preventiva autorizzazione, oppure quelle a cui è revocata l’autorizzazione stessa a seguito di gravi irregolarità. Un intervento di rilievo, che ha indotto ad un duplice riconoscimento: l’esistenza di una riserva legale nell’esercizio di detta attività e la presa di coscienza dell’interesse pubblico sottostante. Quest’ultimo aspetto è evidenziato anche dai numeri della massa fiduciaria amministrata da tali società italiane, cresciuta dai 71 miliardi di € del 2008 ai 125 miliardi di € del 2015.

Ad una situazione così complessa e di non facile lettura, dagli inizi degli anni ’90 si aggiunge il contrasto al riciclaggio del denaro sporco. Esigenza, sorta in primis a livello sovranazionale, che ha indotto ad una disamina su come la globalizzazione finanziaria e l’utilizzo dei sistemi digitali di trasferimento fondi abbiano reso urgente una risposta corale per evitare che i capitali illeciti prima e il finanziamento del terrorismo poi inquinassero l’economia sana. Nascevano in tal modo obblighi internazionali sulla prevenzione e sul contrasto dei capitali illeciti a carico di svariate categorie di soggetti, finanziari e non. Non potevano ivi mancare le società fiduciarie, visti i compiti istituzionali di “schermo” sui reali titolari dei beni loro affidati. Conseguentemente, la vigilanza sul “riciclaggio” veniva riservata alla all’Autorità di Palazzo Koch, in virtù dell’ampia e consolidata esperienza come Autorità bancaria e finanziaria. Basti pensare che la stessa Agenzia antiriciclaggio per il nostro Paese passò, nel 2008, all’interno della Banca d’Italia con il nome di Unità di Informazione Finanziaria.

Si è quindi giunti a spiegare perché il legislatore abbia finito con affidare alla Banca una seconda, nuova, vigilanza sulle società fiduciarie di maggiore dimensione o rilevanza. Più precisamente, questa innovazione di controllo pubblico è stata operata tramite la riformulazione dell’art. 199 T.U.F. (intitolato “Società fiduciarie”) e dell’art. 106 T.U.B. (“Albo degli intermediari finanziari”). L’opportunità di tale riscrittura normativa è stata colta dal nostro legislatore a seguito della riforma dei titoli V (“Disciplina degli intermediari finanziari) e VI (“Norme sulla trasparenza”) del T.U.B., effettuata con i d.lgs. n. 141 del 2010 e n. 169 del 2012, che attuano la direttiva comunitaria 2008/48/CE in tema di contratti di credito dei consumatori. Limitatamente all’oggetto di studio, è stato imposto a quelle svolgenti l’attività di custodia e amministrazione di valori mobiliari e o controllate da una banca/intermediario finanziario oppure aventi la forma di S.p.A. e capitale minimo di 100.000€, di iscriversi nella “nuova” sezione separata del suddetto albo degli intermediari finanziari (ex art. 106 T.U.B.) tenuto dalla Banca d’Italia. In data 12 ottobre 2017, risultano qui iscritte ben 36 fiduciarie aventi le suddette caratteristiche.

Una riforma divenuta operativa all’inizio del 2016, tramite dei provvedimenti interni dell’Autorità di Palazzo Koch ed in particolare grazie ad alcune disposizioni contenute nella circolare n. 288 del 2015. Esse sono dirette a stabilire: i requisiti organizzativi e di governo societario per il rispetto dei presidi antiriciclaggio; le procedure di autorizzazione per l’iscrizione delle stesse e la normativa post autorizzazione (come ad es. la verifica delle condizioni di onorabilità e reputabilità degli esponenti, l’esistenza di adeguati sistemi di compliance interni e la previsione di indagini ispettive). Nella sua circolare d’altro canto, l’Ente citato si premura di non voler pregiudicare le norme ministeriali in materia di autorizzazione e vigilanza sulle fiduciarie. Resta il fatto che, in presenza di due organi di vigilanza che esercitano la relativa attività sugli stessi soggetti, gli aspetti di coordinamento verranno ad assumere un ruolo, davvero, fondamentale. Quid iuris: se una fiduciaria già iscritta presso il Ministero e la Banca d’Italia vede successivamente revocata la sua autorizzazione da quest’ultimo Istituto, cosa potrebbe accadere? Si dovrebbero distinguere due ipotesi. La prima, in caso di impresa con forma di S.p.A. e capitale pari al doppio di quello previsto dal codice, dove si può immaginare una diminuzione del conferimento societario capace –potenzialmente- di disinnescare il conflitto e di portare detta fiduciaria fuori dalla sorveglianza dell’Autorità di Palazzo Koch (operazione che apparirebbe comunque un campanello d’allarme per il MISE). Ben più complicata e difficilmente sanabile sarebbe invece la revoca per la fiduciaria controllata da gruppo bancario o intermediario finanziario, dove infatti le operazioni sul capitale sarebbero irrilevanti per “sfuggire” dalla competenza della Banca. Da quanto si è appreso, simili dubbi sono stati già fatti presenti al Ministero e sono stati conseguentemente avviati i primi contatti per meglio disciplinare le reciproche attività di vigilanza.

Oggi pertanto, il controllo pubblico italiano sulle fiduciarie sembra aver raggiunto il suo livello massimo. Tuttavia, per meglio valutare la reale efficacia del suddetto sistema, lo si è opportunamente comparato con le regolamentazioni della Svizzera e di San Marino. In particolare, lo studio si è mosso su due piani: quello riguardante le “fiducie” e quello invece riferibile al vaglio dell’attività fiduciaria.

Al pari del nostro sistema, in quello svizzero non si riscontrano norme positive sulla “fiducia”. Così, la sua disciplina è lasciata all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale culminata, anche qui, nell’elaborazione del “negozio fiduciario” e i cui confini sono stati ricostruiti secondo lo schema del mandato fiduciario. Inoltre la Confederazione elvetica ha ratificato, sia pure solo nel 2007, la Convenzione dell’Aja sugli effetti del trust, fatte salve le recentissime misure volte ad accogliere una trust interno.

Quanto al più “scottante” tema della vigilanza sull’attività fiduciaria in Svizzera, occorre distinguere la normativa nei suoi due livelli, federale da un lato e cantonale dall’altro. La prima ha imposto solo degli oneri antiriciclaggio: il problema qui è che il vigilato può decidere il soggetto vigilante, ossia se la FINMA (equivalente alla nostra Consob) o gli Organismi di Autodisciplina (in cui vi fanno parte gli stessi vigilati, con evidenti rischi di conflitto di interessi). Superfluo specificare dove ricadono la maggioranza delle richieste. Pertanto, la regolamentazione dell’attività fiduciaria non è stata ritenuta sufficientemente importante da giustificare una normativa federale, cosicché i ventisei cantoni scelgono autonomamente se provvedervi. Solo uno, proprio il Ticino, ha legiferato –“Lfid” del ’09- tanto la professione fiduciaria (stabilendone l’obbligo di autorizzazione a carattere strettamente individuale), quanto la correlata vigilanza pubblica (rimessa all’Autorità di Bellinzona, la quale dedica un sola ispettore per quasi 1500 fiduciari). La mancanza di adeguate risorse vigilanza e il “tenue” contrasto all’esercizio abusivo della professione, punito quest’ultimo con una mera sanzione amministrativa, ne rappresentano gli aspetti maggiormente critici. Non stupisce perciò la frequente emersione di scandali sui fiduciari svizzeri nella stampa specializzata.

La Repubblica del Titano ha invece offerto agli operatori una situazione ben più regolamentata delle fiducie. Infatti all’interno dell’ordinamento sammarinese sono stati disciplinati il mandato fiduciario (v. LISF ’05), il contratto di affidamento fiduciario (v. legge 43/2010) ed il trust interno (v. legge 37/2005). Non solo, è stata altresì prevista una Corte specializzata nel dirimere le controversie di carattere fiduciario (v. legge costituzionale 1/2012).

Riguardo invece alla sorveglianza svolto sui soggetti fiduciari (persone fisiche o giuridiche) a San Marino, la competenza è affidata alla Banca Centrale e si estende ad aspetti ulteriori rispetto agli “ordinari” presidi antiriciclaggio. In particolare, tale vigilanza assume carattere bifasico. Esiste perciò sia una riserva di attività con connesso obbligo di autorizzazione, sia una vigilanza post autorizzazione, effettuata tramite indagini ispettive contabili e gestionali. Tuttavia, i recenti sforzi finalizzati ad una migliore trasparenza della piazza finanziaria del Titano si scontrano con la mancata indipendenza del vertice della Banca Nazionale rispetto all’esecutivo. In particolare, è notizia recente come sia stato qui dimissionato in un solo giorno il Direttore della stessa per volere del Governo. Situazione –finora- impensabile in Italia, visto che nel nostro Paese il Governatore della Banca d’Italia è sì una nomina sostanzialmente politica (è proposta su consiglio del Governatore della nostra Banca Centrale, nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri “sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia”), ma è sostanzialmente immune da ogni ingerenza altrui nell’esecuzione del suo incarico. Un paragone, questo, volto a sottolineare come ad una normativa formalmente adeguata di controllo sull’attività fiduciaria debba corrispondere, per una sua effettiva valenza pratica, un’azione autonoma e indipendente degli organi di vigilanza. Ciò rappresenta un monito di forte attualità, viste le notizie diffuse in questi giorni che vedono alcuni parlamentari discutere l’operato dell’attuale Governatore Ignazio Visco.

Concludendo, la normativa italiana, pur caratterizzandosi in negativo per i suoi aspetti di disorganicità e lacunosità, è riuscita a sviluppare un concreto e innovativo sistema di controllo pubblico sulle società fiduciarie, capace altresì di non pregiudicarne il crescente ricorso.

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