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M&A “non ostili”: quale tutela per le minoranze?

27 Novembre 2020

Matteo De Poli, Professore Ordinario di Diritto dell’economia, Università degli Studi di Padova; Studio De Poli – Venezia

Di cosa si parla in questo articolo

[*] Nelle società chiuse, i processi di fusione ed acquisizione sono, per definizione, “non ostili”, essendo l’”ostilità” – continuo pure a chiamarla così – confinata, almeno in senso stretto, al solo ambito di applicazione della disciplina delle offerte pubbliche di acquisto. Volendo in questa sede occuparmi solo di vicende pertinenti a società chiuse, con l’espressione “M&A non ostili” intendo significare esperienze di diverso tipo, in cui l’apertura del capitale sociale a soggetti diversi da quelli fondativi della società non è espressione del bisogno[1] ma di una meditata scelta economico-finanziaria[2]. Vicende che, ad ogni buon conto, impongono a chi, se del caso, andrà a rivestire il ruolo di minoranza (concetto su cui mi intratterrò a breve) di concentrarsi con particolare attenzione su come tutelare il proprio investimento e, in ultima analisi, come difendere la logica di collaborazione che è stata posta alla base dell’integrazione. A chi dovesse obiettare che, così, si sta dichiarando l’ovvio – chi, invero, dovendo finire in minoranza, non mira a tutelare la propria posizione? – replico con un’osservazione tratta dall’esperienza: sono molti, se non moltissimi, i casi in cui – per ragioni varie, non ultima una sottovalutazione del ruolo dello statuto e dei patti parasociali ed un’esaltazione, per contro, di una superiore capacità delle parti di prevenire o risolvere i conflitti – la minoranza non ha valutato adeguatamente le conseguenze di una conflittualità con la maggioranza.

Dicevo poco fa che è opportuno spendere qualche parola sul concetto di “minoranza”, non avendone dato il legislatore alcuna definizione puntuale[3]. Per “minoranza” intendo qui il socio o i soci che non siano in grado – non episodicamente, ma stabilmente – di esercitare una influenza determinante, attraverso il proprio voto in assemblea, nell’approvazione delle delibere “essenziali” per la vita sociale, ossia quelle inerenti alla nomina e alla revoca delle cariche sociali o all’approvazione del bilancio[4]. Che questo o questi soci, poi, nell’ipotesi in cui la società oggetto dell’operazione sia una S.p.A., siano in grado di condizionare le deliberazioni dell’assemblea “straordinaria”, non fa venire meno quello status di minoranza, che rimane ancorato alla incapacità di influire sull’insediamento e la rimozione dell’organo amministrativo o sull’approvazione del rendiconto della gestione di quest’organo[5].

Dando per scontato il disinteresse per un assetto che veda la divisione della società in due blocchi di interessi di pari caratura o, perfino, che un siffatto modello così nettamente bipartito possa concretamente realizzarsi; e, per converso, focalizzandosi questa relazione su un caso di assetto societario che veda la presenza di una “maggioranza” e di una “minoranza”; nello scenario appena delineato, coloro che, a seguito di un’operazione di M&A non ostile, andranno a rivestire il ruolo di soci di minoranza dovranno anzitutto ricordare che l’apparato di tutele legali loro concesse si muove anche in funzione del grado di partecipazione al capitale sociale.

Nelle S.p.A., come sappiamo, la titolarità di (almeno) il 5% del capitale sociale consente al socio l’impugnativa della delibera che non sia stata assunta conformemente a quanto previsto dalla legge o dallo statuto sociale (così l’art. 2377, terzo comma, cod. civ.)[6]; inoltre, ai sensi dell’art. 2408 cod. civ., tale grado di partecipazione consente di denunziare all’organo di controllo fatti ritenuti censurabili, obbligando lo stesso ad indagare senza ritardo a riguardo e a presentare le proprie conclusioni ed eventuali proposte all’Assemblea dei soci. Come è evidente, una partecipazione al 5% offre una tutela minima; né, d’altro canto, quella collaborazione tra realtà imprenditoriali che è alla base di una loro integrazione e che ispira questa riflessione rende statisticamente rilevante il caso che un socio detenga solo il 5% delle azioni. Come dicevo, al crescere della quota di partecipazione in una S.p.A., però, il legislatore predispone forme di tutela più incisive. Così, una partecipazione del 10% consentirà al socio o ai soci di minoranza di richiedere agli amministratori la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2367, primo comma, cod. civ., nonché di agire ex art. 2409 cod. civ. in caso di fondato sospetto di gravi irregolarità nella gestione che possano arrecare danno alla società; una partecipazione del 20% consentirà invece di esercitare l’azione di responsabilità contro gli amministratori e i sindaci ai sensi dell’art. 2393-bis, primo comma, cod. civ.; una partecipazione del 33% al capitale sociale consentirà di chiedere il rinvio dell’assemblea ai sensi dell’art. 2374 cod. civ., nonché di porre il veto nell’assemblea straordinaria in seconda convocazione ai sensi dell’art. 2369, quinto comma, cod. civ. La maggior parte delle soglie citate, va precisato, sono riducibili[7] così come elevabili, salvo quella che riguarda l’azione di responsabilità del socio, per la quale l’art. 2393-bis, primo comma, cod. civ. stabilisce che «L’azione sociale di responsabilità può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo» (l’enfasi è di chi scrive), sicché la soglia del 20% può essere sia diminuita sia aumentata ma entro il limite del 33%[8]. Non pare invece ammissibile[9], in ragione del silenzio del legislatore a riguardo, alcuna deroga alla soglia del 33% necessaria ai fini della richiesta il rinvio dell’Assemblea.

La situazione è più semplice quando la società target è una S.r.l., un tipo societario che, dopo la riforma del 2003, il legislatore ha ritenuto funzionale a casi di ristretta compagine sociale e da un forte controllo dei soci sulla gestione. Ciò premesso, l’art. 2779-ter cod. civ. non prevede alcuna soglia di partecipazione al capitale per impugnare una delibera che non sia stata assunta conformemente a quanto previsto dalla legge o dallo statuto sociale; lo stesso dicasi, ai sensi dell’art. 2476 cod. civ., per la proposizione dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori; per contro ed a titolo esemplificativo, ai sensi dell’art. 2476, quinto comma, cod. civ., salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, l’azione di responsabilità contro gli amministratori può essere oggetto di rinuncia o transazione da parte della società, purché vi consentano almeno i due terzi del capitale sociale e sempre che non si oppongano tanti soci che ne rappresentino almeno il 10%; il socio o i soci che rappresentino almeno il 10% del capitale sociale, poi, potranno agire ex art. 2409 cod. civ.[10]. Infine, una partecipazione del 33% al capitale, ai sensi dell’art. 2479, quarto comma, cod. civ., consente di richiedere la convocazione dell’Assemblea per deliberare su determinate materie. Ciò detto, nelle S.r.l., più che negoziare deroghe alle soglie di partecipazione appena citate, appare opportuno, come vedremo a breve, insistere per la concessione di particolari diritti di amministrazione in capo ai soci di minoranza oltreché (ma ciò vale in egual misura per le S.p.A.) per la fissazione di quorum deliberativi(assembleari e non) rafforzati.

Prima di approfondire nel dettaglio quali forme di tutela è più opportuno negoziare al fine di soddisfare e proteggere al meglio gli interessi della minoranza, mi chiedo quale sia il “luogo” più adatto a tale scopo, ossia lo statuto oppure un patto parasociale[11]. Con la riforma del 2003, lo sappiamo, l’autonomia statutaria è stata sensibilmente valorizzata ma ciò non esclude la possibilità – spesso per ragioni d’opportunità, quali l’esigenza di riservatezza o per la comune volontà delle parti di adattare o modificare il patto alla sopravvenienza di future circostanze senza ricorrere all’assemblea ed all’atto pubblico – di inserire alcune pattuizioni in un accordo parasociale anziché nello statuto[12]. Se è scontato, ad esempio, che la riduzione della soglia di partecipazione necessaria all’esperimento dell’azione ex art. 2409 cod. civ. debba confluire nello statuto sociale, la modifica dei quorum deliberativi rafforzati su talune materie (quali, ad esempio, il compimento di operazioni di carattere straordinario), invece, ben potrebbe essere collocata anche all’interno di un patto parasociale, purché la sua violazione – non opponibile alla società, che è terza, sempre che essa non abbia aderito al patto – sia efficacemente sanzionata (con una penale, ad esempio) o che contro di essa il soggetto leso possa reagire (ad esempio esercitando un’opzione di vendita).

Il patto parasociale, dunque, si fa preferire quando entra in gioco un’esigenza di riservatezza o quella di coinvolgere soggetti terzi rispetto ai soci. D’altro canto, esso sconta il fondamentale limite di avere efficacia meramente obbligatoria[13] e tendenzialmente[14] limitata ai suoi sottoscrittori, con la conseguenza che la delibera eventualmente adottata non conformemente a quanto previsto dal patto non potrà essere impugnata come quella che non sia stata presa nel rispetto di quanto previsto dalla legge o dallo statuto ma, al più, essa sarà fonte di responsabilità contrattuale per il socio inadempiente rispetto a quanto pattuito.

Nelle S.p.A., poi, gli accordi ricadenti dentro l’ambito disegnato dall’art. 2341-bis, primo comma, cod. civ. – ossia quelli che disciplinano limitazioni all’esercizio del diritto di voto o al trasferimento di partecipazioni societarie o che abbiano per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante sulla società –; quei patti, dicevo, non potranno avere un’efficacia superiore ai cinque anni e, nel caso in cui la durata non sia prevista ed il patto sia quindi a tempo indeterminato, ciascuna parte potrà recedervi liberamente con un preavviso di centottanta giorni (così, l’art. 2341-bis, primo e secondo comma, cod. civ.). Ciò vale per le società azionarie. Nulla si dispone per le S.r.l., con la conseguenza che, in ragione del silenzio del legislatore e dell’assenza di un rinvio all’art. 2341-bis cod. civ., il limite di durata quinquennale previsto per le S.p.A. non pare applicabile a questo tipo societario[15]. Ad ogni modo, una durata irragionevolmente eccessiva del patto (si pensi ad un patto contratto per una durata superiore alle aspettative di vita dei contraenti) potrà consentire al socio di recedervi con un congruo preavviso[16].

Esaminate, pur brevemente, le problematiche connesse alla scelta del luogo più idoneo a contenere le tutele negoziate a beneficio della minoranza, mi vorrei ora concentrare sul contenuto delle tutele, non trascurando di prendere in considerazione aspetti più pratici che strettamente giuridici. Dato per scontato che la minoranza non potrà veder accolta ogni sua proposta, gioverà che essa comprenda bene quali tuteli sono rinunciabili, quali sono utili, quali sono assolutamente essenziali. Tra queste ultime metto al primo posto la previsione di quorum rafforzati in relazione alle delibere relative ad aumenti di capitale e, a seguire, ad altre operazioni di particolare rilievo[17]; quorum tali da consentire al socio di minoranza di impedire l’adozione di delibere che potenzialmente possano recare un pregiudizio ai propri interessi, esercitando, de facto,un vero e proprio potere di veto[18]. Gli stessi quorum rafforzati previsti per dette delibere dovranno – direi: a scanso di equivoci… – essere predisposti anche in relazione alle modifiche statutarie che abbiano ad oggetto una eventuale revisione degli stessi, onde evitare che la tutela a favore della minoranza possa essere eventualmente “aggirata” dalla maggioranza con una modifica statutaria soggetta ad un quorum più basso[19]. Qualora non si riesca ad ottenere tale potere di veto, si dovrà riparare sulla concessione di un’efficace way out, ad esempio tramite un’opzione put (di cui dirò meglio a breve). Quanto detto vale, per quanto riguarda le S.r.l., sia per le determinazioni assembleari sia per quelle extra-assembleari.

Analoga attenzione dovrà essere riposta quanto alle decisioni dell’organo amministrativo della società e lo sforzo dovrà allora canalizzarsi nella pretesa che sia regolamentata la possibilità di rappresentanza del socio di minoranza nell’amministrazione della società, oltreché nell’organo di controllo, se istituito. Ciò comporta l’esclusione della possibilità, quasi sempre contemplata negli statuti, di insediamento di un organo amministrativo monocratico[20] e la necessità di prevedere un organo pluripersonale[21].

In una S.p.A., il diritto alla partecipazione all’organo amministrativo potrà essere garantito dall’introduzione, in statuto, di un meccanismo di voto di lista; minor tenuta è invece offerta dalla sottoscrizione di un patto parasociale che obblighi i soci di maggioranza e di minoranza ad accordarsi preventivamente sulla nomina delle cariche sociali. Gli stessi meccanismi, peraltro, possono essere previsti nel caso in cui la società coinvolta sia una S.r.l. ma, in questo caso, essi rappresentano soluzioni secondarie in ragione di quanto previsto dall’art. 2468, terzo comma, cod. civ., che consente di attribuire, nello statuto, «particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili» ai singoli soci; soluzione, questa, certamente più funzionale rispetto a quelle appena citate[22]. A titolo esemplificativo, può essere attribuito al socio o ai soci di minoranza il diritto particolare di nominare uno o più amministratori così come quello di revocarli, di compiere determinati atti gestori o, ancora, di rivestire la carica di amministratori con particolari deleghe. Non solo: possono essere loro attribuiti anche peculiari poteri autorizzativi o di veto in relazione a talune operazioni (a titolo esemplificativo, in relazione all’alienazione di immobili della società, all’iscrizione di ipoteche sugli stessi, alla cessione di rami d’azienda, etc.). Ricordo, comunque, che la previsione di “particolari diritti” in capo al socio non può esorbitare dal campo dell’amministrazione della società o della distribuzione degli utili, con il risultato che sono da ritenersi inammissibili diritti particolari che, ad esempio, deroghino al rapporto tra proporzionalità della partecipazione e diritto di voto sancito dal secondo comma dell’art. 2468 cod. civ. ed attribuiscano al voto del socio di minoranza un peso superiore rispetto alla propria partecipazione, non essendo infatti il diritto di voto qualificabile come “diritto di amministrazione”[23].

Da ultimo, se non proprio “essenziale”, certamente utile sarà una regolamentazione della distribuzione degli utili eventualmente generati, onde prevenire che il socio di maggioranza attui una politica di accantonamento degli utili generati e privi così la minoranza di una qualche forma di ritorno sull’investimento, incentivandola – nel caso di dissidio – a cedere la propria partecipazione. La disciplina di questo aspetto potrà avvenire nello statuto – prevedendo il diritto dei soci, tutti, alla distribuzione di una quota dell’utile formato – o in un patto parasociale e, nel caso in cui la società coinvolta sia una S.r.l., attraverso la previsione di diritto particolari ai sensi dell’art. 2468, terzo comma, cod. civ.[24]

Tra le tutele non essenziali ma certamente utili ad assicurare alla minoranza una posizione migliore e più sicura nella società, rientrano i diritti di exit. Al di là dell’ovvio suggerimento di disciplinare con particolare attenzione la disciplina del recesso e di prestare particolare attenzione all’eventuale richiesta del socio di maggioranza di inserire in statuto cause di esclusione del socio, ritengo utile soffermarmi brevemente su alcune clausole ricorrenti nei patti parasociali – ma spesso presenti anche negli statuti – di società, come sono quelle che ispirano queste riflessioni, caratterizzate da una compagine sociale ridotta: il riferimento è alle clausole di trascinamento (cd. “drag along”) e di co-vendita (cd. “tag along”) e alle opzioni di acquisto (cd. “call”) e di vendita (cd. “call”)[25]. Se generalmente è interesse della maggioranza ottenere, oltre alla consueta prelazione, una clausola di trascinamento per massimizzare il valore del propria partecipazione in previsione di una futura cessione della stessa ad un terzo che sia interessato ad acquisire il controllo dell’intera società (la clausola di drag along, infatti, obbliga la minoranza a vendere la propria partecipazione al terzo unitamente a quella della maggioranza: in sintesi, la maggioranza può “trascinare” la minoranza nella cessione), la minoranza dovrà adoperarsi affinché vengano accettate dalla controparte tutele – a proprio beneficio – che bilancino la situazione creatasi con la drag along, e ciò può avvenire chiedendo l’inserimento di una clausola di co-vendita e, semmai, anche di un’opzione di vendita. La prima clausola tutela la minoranza nell’ipotesi in cui la maggioranza voglia cedere – solamente – la propria partecipazione ad un terzo che non le sia gradito come futuro socio o, comunque, a condizioni economiche d’interesse anche per la stessa: grazie alla clausola di tag along, la minoranza potrà vendere la propria partecipazione al terzo – fermo il consenso di quest’ultimo – unitamente a quella della maggioranza. Grazie all’opzione put, invece, la minoranza avrà il diritto di vendere alla maggioranza la propria partecipazione al ricorrere di determinate circostanze; diritto che fungerà da contraltare a quello di acquisto in capo alla maggioranza (nulla vieta ovviamente alle parti di stipulare dei meccanismi di put call reciproci – cd. “buy and sell agreement”– di modo che entrambe abbiano sia dei diritti di acquisto che di vendita)[26].

Altre tutele utili ma comunque non essenziali riguardano la riduzione di determinate soglie di partecipazione al capitale sociale al superamento delle quali sono attribuiti determinati diritti o è possibile esercitare determinati poteri. Un esempio è stato proposto in precedenza in relazione alla possibilità di ridurre la soglia di partecipazione necessaria per poter esercitare l’azione ex art. 2409 cod. civ. Altre riduzioni certamente utili possono riguardare, a titolo esemplificativo, la soglia per esercitare l’azione di responsabilità nelle S.p.A.[27] o per richiedere la convocazione dell’Assemblea nelle S.r.l.

Infine, le tutele “rinunciabili”. Giova premettere che l’aggettivo in evidenza non deve essere inteso come sinonimo di inutilità: infatti, ogni tutela può astrattamente recare un beneficio alla minoranza. Invero, l’aggettivo “rinunciabili” rappresenta la presa d’atto delle complessità che generalmente caratterizzano le trattative di una operazione di M&A, in cui le parti “rinunciano” a talune pretese onde proseguire nelle negoziazioni ed ottenere altri risultati che considerano più importanti. Ciò premesso, è evidente come la “rinunciabilità” di una determinata tutela dipenderà dal caso concreto in cui ci si venga a trovare: si pensi all’ipotesi – non certo infrequente – in cui il fondatore di una società di successo ceda la partecipazione di controllo e lasci la gestione alla nuova maggioranza. In tal caso, egli non avrà interesse ad ottenere deleghe gestorie particolarmente penetranti (al più potrà essere nominato presidente non esecutivo); per converso, guarderà con attenzione al tema della distribuzione degli utili. Nell’ipotesi appena descritta, i diritti amministrativi che poco fa avevo astrattamente ritenuto essere “essenziali” sono di certo rinunciabili, a vantaggio di altri aventi per oggetto questa materia.

Ad ogni modo, al di là di ogni singola fattispecie e delle sue peculiarità, ritengo che alcune tutele abbiano minore capacità di influenzare la maggioranza, condizionandone l’operato. Si pensi ai poteri di controllo e di ispezione dei soci di S.r.l. di cui all’art. 2476, secondo comma, cod. civ.: i soci già «hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione»; estendere ulteriormente la portata di questa previsione, con diritti più penetranti e/o con un maggiore grado di dettaglio[28], potrebbe tradursi in un inutile risultato in ragione della già soddisfacente disciplina codicistica della materia.

In conclusione, quanto finora affermato attesta gli ampi spazi operativi a favore di chi sta trattando il proprio ingresso in una società in posizione di minoranza o una cessione di partecipazioni sociali che lo faccia regredire a tale condizione. Invero, l’ampiezza del margine di negoziazione può anche tradursi in un fattore di rischio se non viene preventivamente delineata strategia, ben definita e al contempo duttile all’occorrenza, che individui preventivamente quali tutele andare a trattare con maggior attenzione ed in quali luoghi andare a predisporle.

Una trattativa condotta con una previa e chiara consapevolezza del risultato complessivo che si vuole raggiungere dovrebbe garantire – se la controparte non disconoscerà quella logica di partnership che ho posto alla base di questa analisi – un risultato equilibrato, dunque soddisfacente.

Aggiungo che, sempre nell’ambito della citata logica di partnership, una escalation dei diritti della maggioranza rispetto allo standard di legge non può essere rifiutata, almeno in toto, dalla controparte. Cito due forme di tutela della minoranza il cui rifiuto implicherebbe, di fatto, l’abbandono della logica collaborativa: una clausola anti-diluizione, a presidio dell’investimento altrimenti minacciato da aumenti di capitale che si collochino entro la soglia dell’abusività ma che siano, pur sempre insostenibili, dalla minoranza; e quella di tag along, necessario contraltare della pretesa della maggioranza di disporre di un drag along.

 

[*] Testo, corredato di note, della relazione dall’identico titolo tenuta il 9 ottobre 2020 all’interno del ciclo di webinar “Cinque Casi di Diritto Societario”, organizzato da Amici di Adamitullo e Studio De Poli – Venezia. Ringrazio il dott. Edoardo Cecchinato per l’aiuto datomi nella revisione della relazione.

[1] Come può accadere, invece, nella situazione in cui una delle parti dell’operazione versi in una situazione di difficoltà finanziaria.

[2] Tra i molti casi, si pensi all’ingresso di capitale straniero in una realtà societaria nazionale, accompagnato dalla richiesta che l’esistente compagine sociale rimanga nella società; fenomeno, questo, che sta assumendo sempre maggior frequenza e rilievo.Guardando solo agli investimenti esteri diretti in entrata, ossia agli investimenti esteri finalizzati all’acquisto di una partecipazione duratura in una impresa italiana o, comunque, alla costituzione di una succursale in Italia, che comportino un certo grado di coinvolgimento dell’investitore nella gestione o nella direzione della partecipata o succursale; si diceva, guardando solo agli investimenti esteri diretti in entrata in Italia, a fine 2018 e, quindi, in un periodo di normalità non caratterizzato dalle incertezze generate dalla pandemia in corso, essi ammontavano ad oltre 360 miliardi di euro, circa il 20,5% del PIL. Invero, la percentuale è significativa ma comunque esigua se raffrontata alla situazione in altri Stati membri dell’Unione Europea: a titolo esemplificativo, sempre nel 2018, in Francia era il 29%, nel Regno Unito superava il 60%, in altri paesi – pur caratterizzati da un PIL certamente inferiore a quello italiano – superava il 180% (Paesi Bassi) o addirittura il 250% (Irlanda). A riguardo, si v. ICE, Rapporto ICE: ‘L’Italia nell’economia internazionale’ 2019-2020, 2020 https://www.ice.it/it/studi-e-rapporti/rapporto-ice-2019 ultimo accesso il 23 novembre 2020; CGIA Mestre, Pochi investimenti esteri e multinazionali in crisi: é fuga dall’Italia?, 30 novembre 2019 <https://www.cgiamestre.com/pochi-investimenti-esteri-e-multinazionali-in-crisi-e-fuga-dallitalia/>ultimo accesso il 23 novembre 2020; e Commissione Europea, Commission Staff Working Document on Doreign Direct Investment in the EU following up on the Commission Communication “Welcoming Foreign Direct Investment while Protecting Essential Interests” of 13 September 2017, 13 marzo 2019 <https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/IP_19_1668> ultimo accesso il 23 novembre 2020.Peraltro, pare opportuno sottolineare come numerosi piccoli deal sfuggano all’indagine statistica, sicché i dati disponibili vanno necessariamente rivisti sensibilmente al rialzo: in tal senso, G. Gagliardi e V. Coppari, Situazione e prospettive dell’M&A, in Amministrazione & Finanza, fasc. 4, 2017, pp. 77-85 e spec. 79-83.

[3] Neppure nel Testo Unico della Finanza dove – prima del recepimento della Direttiva 2007/36/CE ad opera del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 27 –, al capo II del Titolo III della Parte IV, relativa alla disciplina degli emittenti, la sez. II era rubricata “Tutela delle minoranze” (oggi “Diritti dei soci”).

[4] Per un’analisi più approfondita del concetto di “minoranza”, sia in relazione alle società chiuse sia in relazione a quelle aperte (che sfuggono all’indagine di questa relazione), rinvio a quanto scritto da N. Salanitro, La tutela delle minoranze nelle assemblee delle società quotate, in Banca Borsa Titoli di Credito, 1999, fasc. 6, parte I, pp. 681 s.; S. Ambrosini, Nomina del collegio sindacale nelle società quotate: il c.d. sindaco di minoranza, in Rivista delle Società, fasc. 5, parte I, 1999, p. 1124 s.;P.Montalenti, Amministrazione, controllo, minoranze nella legge sul risparmio, in Rivista delle Società, fasc. 5-6, parte I, 2006, pp. 989 s.; e, più, recentemente, da Id., Tutela delle minoranze, interesse sociale e sistemi di controllo, in Rivista di Diritto Societario, fasc. 3, parte I, 2015, p. 508 s.; M. Campobasso, La tutela delle minoranze nelle società quotate: dall’eterotutela alla società per azioni “orizzontale”, in Banca Borsa Titoli di Credito , fasc. 2, parte I, 2015, pp. 140-144; e Id., La tutela delle minoranze tra società aperte e società chiuse, in F. Barachini (a cura di), La tutela del socio e delle minoranze: Studi in onore di Alberto Mazzoni, Giappichelli, 2018, pp. 123-136.

[5] Ritengo utile riepilogare qui i quorum costituivi e deliberativi di S.p.A. ed S.r.l., a beneficio delle riflessioni che seguiranno. Ai sensi degli artt. 2368 e 2369 cod. civ., in una S.p.A. chiusa, l’Assemblea ordinaria, in prima convocazione, si costituisce regolarmente con la presenza di almeno la metà del capitale sociale e delibera a maggioranza assoluta, salvo una maggioranza più elevata prevista dallo statuto; nelle convocazioni successive, invece, essa delibera con il voto favorevole della maggioranza del capitale rappresentato in Assemblea, qualunque ne sia la percentuale (a meno che lo statuto non richieda una maggioranza più elevata). L’Assemblea straordinaria, invece, in prima convocazione, delibera con il voto favorevole di più della metà del capitale sociale, salvo una maggioranza più elevata prevista dallo statuto, e, nelle convocazioni successive, si costituisce validamente con la partecipazione di oltre un terzo del capitale sociale e delibera con il voto favorevole di almeno i due terzi del capitale rappresentato, a meno che lo statuto non richieda una maggioranza più elevata. Il legislatore non ha espressamente previsto un quorum costitutivo per l’Assemblea straordinaria alla prima convocazione: ad ogni modo, la dottrina è unanime nel ritenere che esso coincida con quello deliberativo. Così, ex multis, C.A. Busi,Assemblea e Decisioni dei Soci nelle Società per Azioni e nelle Società a Responsabilità Limitata,vol. IV di E. Picozza e E. Gabrielli (dir. da), Trattato di Diritto dell’Economia, Cedam, 2008, p. 822; F. Pasquariello, sub artt. 2368-2369, in A. Maffei Alberti (a cura di)Il Nuovo Diritto delle Società, vol. I, Cedam, 2005, p. 467; C. Montagnani, sub artt. 2368-2369, in G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres (a cura di), Società di Capitali, Jovene, 2004, p.488 s.; e F. Galgano, Il Nuovo Diritto Societario, vol. XXIX di F. Galgano (dir. da), Trattato di Diritto Commerciale e di Diritto Pubblico dell’Economia, Cedam, 2003, p. 216. In ogni caso, onde fugare ogni – seppur minimo – margine di incertezza applicativa, è buona prassi indicare nello statuto il quorum costitutivo dell’Assemblea straordinaria in prima convocazione.

Per quanto riguarda le S.r.l., ai sensi dell’art. 2479-bis cod. civ., salva diversa disposizione statutaria, l’Assemblea è regolarmente costituita con la presenza di almeno la metà del capitale sociale e delibera con il voto favorevole della maggioranza assoluta degli intervenuti, salvo che per le delibere che comportino una modifica all’atto costitutivo od operazioni tali da determinare una sostanziale modifica dell’oggetto sociale o dei diritti dei soci, per le quali è richiesto il voto favorevole di almeno la metà del capitale sociale. A ciò si aggiunga quanto prescritto dall’art. 2479, sesto comma, in tema di decisioni extra-assembleari, le quali sono prese con il voto favorevole di una maggioranza che rappresenti almeno la metà del capitale sociale, salva diversa previsione dello statuto.

Ciò premesso, aggiungo due precisazioni: nei limiti di cui dirò più approfonditamente a breve, i quorum deliberativi sopra citati possono essere derogati dallo statuto, con la conseguenza che per l’approvazione di talune delibere una partecipazione del 50% o del 51% al capitale sociale potrebbe comunque risultare insufficiente. Inoltre, ritengo opportuno sottolineare come l’entità della partecipazione del singolo socio non possa assurgere a criterio dirimente per l’individuazione della maggioranza e della minoranza. Si pensi ad una società in cui nessun socio sia titolare di una partecipazione superiore alla metà del capitale: in tal caso, l’individuazione della maggioranza e della minoranza dipende dall’organizzazione dei soci stessi in sindacati di voto, eventualmente attraverso la stipula di patti parasociali, con la conseguenza che sono soci di maggioranza coloro i quali si sono organizzati affinché il loro voto – uniforme – in Assemblea rappresenti una percentuale superiore alla metà del capitale e soci di minoranza coloro che, invece, non raggiungono la soglia anzidetta. Pertanto, il concetto di “minoranza” non va inteso in senso esclusivamente “quantitativo-aritmetico” ma anche “qualitativo”, definito dai rapporti interni tra i soci (in tal senso, C.A. Busi,Assemblea e Decisioni dei Soci nelle Società per Azioni e nelle Società a Responsabilità Limitata, cit., p. 880).

[6] Nel caso in cui tale soglia non sia raggiunta, ai sensi del successivo quarto comma dell’articolo citato, i soci hanno solamente diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della delibera alla legge o allo statuto.

[7] Sempre ai sensi dell’art. 2377, terzo comma, cod. civ., il limite del 5% di partecipazione al capitale ai fini dell’impugnativa dell’assemblea può essere diminuito ad una percentuale più bassa o addirittura escluso. Anche la soglia del 5% di partecipazione necessaria alla denuncia di fatti censurabili al collegio sindacale è passibile di diminuzione ai sensi dell’art. 2408, secondo comma, cod. civ. Lo stesso dicasi per la percentuale del 10%, utile alla richiesta di convocazione dell’assemblea e alla proposizione di un’azione ex art. 2409 cod. civ., anch’essa riducibile.

[8] Invero, possono sorgere dei dubbi circa la possibilità di diminuire la soglia di partecipazione necessaria ai fini della proposizione dell’azione sociale di responsabilità. Infatti, nella Relazione al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, in M. Vietti, F. Auletta, G. Lo Cascio, U. Tombari e A. Zoppini (a cura di), La Riforma del Diritto Societario, Giuffrè, 2006, p. 227, si può leggere che «salvo diverse percentuali previste dallo statuto, la legittimazione [a proporre l’azione sociale di responsabilità] spetta a tanti soci che rappresentino almeno il 20% del capitale sociale (o il 5% nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio), questa importante tutela spetta solo a minoranze sufficientemente significative» (l’enfasi è di chi scrive). Pertanto, una previsione statutaria che riduca eccessivamente la soglia necessaria per la proposizione dell’azione sociale di responsabilità da parte della minoranza pare collidere con la volontà del legislatore del 2003. Ad ogni modo, il tenore letterale del primo comma dell’art. 2393-bis cod. civ. pone un limite solo all’innalzamento della soglia (i.e., il 33%) e non anche al suo abbassamento: in arg., v. L. Enriques e F.M. Mucciarelli, L’azione sociale di responsabilità da parte delle minoranze, in P. Abbadessa e G.B. Portale (dir da), Il Nuovo Diritto delle Società: Liber Amicorum G.F. Campobasso, vol. II, Utet, 2006, p.872;F. Vassalli, sub art. 2393-bis, in G. Niccolini e A. Stagno d’Alcontres (a cura di), Società di Capitali, vol. II, Jovene, 2004, p. 696; E. Dalmotto, sub artt. 2393-2393-bis, in G. Bonfante, O. Cagnasso e P. Montalenti (dir. da), Il Nuovo Diritto delle Società, vol. I, Zanichelli, 2004, p. 808. In tema di azione di responsabilità promossa dai soci di minoranza e relativi profili processuali, si v. altresì quanto recentemente scritto da G. Gioia, Questioni di legittimazione ad agire e dintorni, in M. De Poli e G. Romagnoli (a cura di), Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di società di capitali, Pacini, 2020, pp. 250-255.

[9] In tal senso, si v., ex multis, A. Busani, Sub art. 2374, , in A. Maffei Alberti (a cura di)Il Nuovo Diritto delle Società, cit., p. 506.

[10] A seguito della recente riforma del diritto fallimentare, l’art. 2409 cod. civ. è ora applicabile anche alle S.r.l., siano esse dotate o meno di un organo di controllo: così dispone l’art. 2377, sesto comma, cod. civ., come recentemente modificato dall’art. 379, terzo comma, del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. In arg., si v. recentemente V. Salafia, La società r.l. e l’art. 2409 c.c., in Le Società, fasc. 4, 2019, pp. 457 s., S. Fortunato, Codice della crisi e Codice civile: impresa, assetti organizzativi e responsabilità, in Rivista delle Società, fasc. 5-6, parte I, 2019, pp. 975 s; e spec. P. Benazzo, Il Codice della crisi di impresa e l’organizzazione dell’imprenditore ai fini dell’allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Rivista delle Società, fasc. 2-3, parte I, 2019, pp. 297-300. Per completezza, per una panoramica completa sui profili problematici dell’istituto in esame ante riforma del 2019, si v., ex multis, R. Rordorf, Brevi note in tema di controllo giudiziario sulla gestione delle società previsto dall’art. 2409 c.c., in Le Società, fasc. 11, 2015, pp. 1210-1215.

[11] In questa relazione, uso l’espressione “patto parasociale” in senso più ampio di quanto sotteso all’art. 2341-bis cod. civ., di cui dirò a breve.

[12] Peraltro, determinati risultati possono essere conseguiti solo attraverso la stipula di un patto parasociale. Si pensi al caso in cui la società oggetto dell’operazione societaria sia una S.p.A., dove ai sensi dell’art. 2368, primo comma, cod. civ., lo statuto può stabilire delle norme particolari per la nomina delle cariche sociali ma, ai sensi del successivo art. 2369, quarto comma, cod. civ., relativo alla seconda convocazione dell’assemblea ordinaria, non può prevedere dei quorum deliberativi rafforzati per la nomina e la revoca delle stesse. Di conseguenza, un eventuale innalzamento statutario del quorum deliberativo previsto dalla disciplina codicistica circa la nomina delle cariche sociali sarebbe illegittimo: la ratio della disposizione citata è ovviamente quella di impedire che l’adozione di delibere “essenziali” alla vita della società sia paralizzata da eventuali dissidi tra i soci. Potrebbe accadere che le parti convengano di attribuire alla minoranza una più spiccata voice nella gestione ma che non riescano ad accordarsi per l’inserimento nello statuto – ai sensi dell’art. 2368, primo comma, cod. civ. – di un meccanismo di voto di lista che garantisca alla minoranza una rappresentanza nell’amministrazione. In tal caso, le parti, ferma la volontà comune di offrire delle garanzie alla minoranza, non potranno innalzare il quorum deliberativo relativo alla nomina dell’organo amministrativo così da attribuire alla stessa minoranza una sorta di potere di veto sulla nomina dell’amministratore o degli amministratori, questo in ragione dell’art. 2369, quarto comma, cod. civ. Una soluzione per ovviare al problema è quella di stipulare un patto parasociale, attraverso il quale le parti si impegnano ad accordarsi preventivamente sulla nomina dell’organo amministrativo e a votare allo stesso modo in assemblea. Sul punto, si v., ex multis, P. Abbadessa e a. Mirone, Le competenze dell’assemblea nelle s.p.a., in Rivista delle Società, fasc. 2-3, parte I, 2010, pp. 338 s.;C. Conforti, Nomina e Revoca degli Amministratori di Società, Giuffrè, 2007, pp. 214-216; nonché F. Laurini, sub artt. 2368-2369, in A. Picciau (a cura di), Assemblea, vol. III di P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi e M. Notari (dir. da), Commentario alla Riforma delle Società, Giuffrè-Egea, 2008,p. 99; B. Petrazzini, subartt. 2368-2369, in G. Bonfante, O. Cagnasso e P. Montalenti (dir. da), Il Nuovo Diritto delle Società, cit., p. 532.

[13] Contrariamente allo statuto che invece è dotato di efficacia reale. In arg., segnalo Cass. civ., sez. I, 2 dicembre 2015, n. 24559, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 5, parte II, 2016, pp. 509 ss. e spec. 511 s.,per una ricostruzione sull’efficacia reale delle clausole statutarie e, in particolare, delle clausole di prelazione contenute nello statuto. Nello specifico, la Corte ritiene che una clausola di prelazione, se inserita nello statuto della società, sarà opponibile anche all’eventuale terzo acquirente «trattandosi di una regola del gruppo organizzato alla quale non potrebbe non conformarsi colui che intendesse entrare a far parte di quel medesimo gruppo» (p. 511); essa, tuttavia, non consente «il riconoscimento al prelazionario pretermesso del diritto al riscatto del bene, mediante la proposizione di una domanda di retratto … atteso che il c.d. retratto … integra … solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettanti ai relativi titolari» (p. 512).

[14] Affermo che i patti parasociali hanno tendenzialmente efficacia limitata ai propri sottoscrittori in ragione delle problematiche connesse alla circolazione della partecipazione sociale e alla possibilità di ingresso nel patto dell’acquirente di questa nel caso in cui lo stesso patto sia configurato ab origine come aperto, consentendo così l’adesione dell’acquirente a seguito della sua mera manifestazione di volervi partecipare, senza ulteriori negoziazioni. In arg., si v. P. Divizia, Circolazione della partecipazione sociale e limiti soggettivi di efficacia dei patti parasociali, in Rivista del Notariato, fasc. 3, parte I, 2012, pp. 615 e spec. 625; e, già, prima della riforma del 2003, R. Torino, I Contratti Parasociali, Giuffrè 2000, pp. 41-44.

[15] É comunque pacifico che i soci di S.r.l., nonostante il silenzio del Codice a riguardo, possano stipulare patti parasociali: è lo stesso legislatore del 2003 ad affermare che «La disciplina[dei patti parasociali], inserita nel capo relativo alle società per azioni, ha inteso regolare la fattispecie con riferimento a quel tipo sociale, perché in esso è più sentita l’esigenza di garantire regole certe e definite in considerazione della maggiore rilevanza per il pubblico e per il mercato finanziario; essa, ovviamente, non intende escludere la possibilità che analoghi patti riguardino altre forme di società, per le quali ovviamente resterà applicabile la disciplina generale dell’autonomia privata e dei contratti, così per esempio le società a responsabilità limitata, come anche le società di persone» (così, con enfasi aggiunta da chi scrive, la Relazione al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, cit., p. 212). In dottrina: si v., ex multis, R. Costi, I patti parasociali nella nuova società a responsabilità limitata, in V. Santoro (a cura di), La Nuova Disciplina della Società a Responsabilità Limitata, Giuffrè, 2003,305-322; M. Cossu, I patti parasociali, in F. Farina, C. Ibba, G. Racugno e A. Serra (a cura di), La Nuova S.r.l., Giuffrè, 2004, pp. 61-71; R. Lener, Appunti sui patti parasociali nella riforma del diritto societario, in Rivista di Diritto Privato, vol. I, fasc. 9, 2004, pp. 45-54;V. Salafia, I patti parasociali nelle società non quotate, in Le Società, fasc. 8, 2005, pp. 945-949 e spec. 947; M. Libertini, I patti parasociali nelle società non quotate. Un commento agli articoli 2431 bis e 2431 terdel codice civile, in P. Abbadessa e G.B. Portale (dir. da), Il Nuovo Diritto delle Società: Liber Amicorum G.F. Campobasso, vol. IV, Utet, 2007, pp. 463-495; P. Marano, I patti parasociali, in A.A. Dolmetta e G. Presti (a cura di), S.r.l. – Commentario, Giuffrè 2011, pp. 126-136.

[16] Mi rifaccio qui ad un orientamento della Suprema Corte che, pur anteriore alla riforma del 2003, ritengo tutt’ora condivisibile. La Corte, con la sent. 14865/2001, superando un proprio orientamento in cui affermava che l’indeterminatezza della durata o la durata non ragionevolmente contenuta di un patto parasociale comportavano la nullità dello stesso, ossia ne determinavano la caduta «nell’area di disfavore che circonda le obbligazioni destinate a durare indefinitamente nel tempo [impedendo così] di considerarlo meritevole di tutela e, per ciò, giuridicamente valido, a norma dell’art. 1322, co. 2, c.c.» (in tal senso si era pronunciata Cass. civ., sez. I, 20 settembre 1995, n. 9975, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 1, parte II, pp. 50-58 e spec. 57); superando detto orientamento, si diceva, la Corte ha ritenuto “eccessiva” la sanzione della nullità a fronte di una patologia circoscritta al mero profilo della durata – indeterminata od eccessiva – del patto, essendo presenti nell’ordinamento altri istituti utili a rimediare alla – non meritevolezza della – perpetuità del patto. La Corte ha quindi individuato quale rimedio l’istituto del recesso ad nutum con obbligo di preavviso o per giusta causa (e la stessa impostazione è stata poi seguita dal legislatore del 2003 all’art. 2341-bis, secondo comma, cod. civ in relazione ai patti parasociali stipulati tra soci di S.p.A. per i quali non sia stata prevista una durata: i contraenti, come anticipato, possono recedere con un preavviso di centottanta giorni). Si v., Cass. civ., sez. I, 23 novembre 2001, n. 14865, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 6, parte II, 2002, pp. 666-671 e spec. 670.

[17] La riduzione del quorum deliberativo disposta con l’art. 44 del D.L. n. 76/2020 è disposizione legata alla pandemia Covid, ed è destinata a venire meno al 30 giugno 2021.

[18] Pare opportuno precisare che, nel caso in cui la società oggetto dell’operazione di M&A non ostile sia una S.p.A., non è possibile negoziare dei quorum deliberativi che richiedano l’unanimità. Questo in ragione del dato letterale degli artt. 2368 e 2369 cod. civ., che parlano di “maggioranza più elevata”, concetto questo nettamente diverso da quello di unanimità. Non solo, è dubbia anche l’ammissibilità di quorum deliberativi tali da “paralizzare” l’Assemblea: a riguardo, si v. quanto scritto da A. Serra, Il procedimento assembleare, in P. Abbadessa e G.B. Portale (dir. da),Il Nuovo Diritto delle Società, vol. II, 2006,p. 62, secondo cui la possibilità di elevare i quorum deliberativi dell’Assemblea «non può tradursi in clausole statutarie che impongano, per l’adozione della deliberazione, l’unanimità dei consensi o comunque maggioranze paralizzanti. Questa conclusione trova conforto innanzi tutto sul piano esegetico, in quanto le norme in materia – consentendo che siano statutariamente previste «maggioranze più elevate» – escludono che possa essere adottato l’opposto criterio dell’unanimità e che sia, conseguentemente, riconosciuto al singolo socio un potere di interdizione. In secondo luogo, e soprattutto, l’introduzione – anche per singole deliberazioni – del criterio di unanimità appare in contrasto con il principio per il quale nelle società azionarie l’organizzazione creata dai soci e le sue regole di funzionamento sono dirette al perseguimento dell’interesse comune, sicché la regola maggioritaria si impone come regola necessaria di organizzazione del gruppo e garanzia di tutela dell’interesse comune a fronte dell’interesse del singolo socio».

Nelle S.r.l., invece, il dettato dell’art. 2479-bis, terzo comma, cod. civ. sembrerebbe ammettere la possibilità di prevedere l’unanimità per le deliberazioni dell’Assemblea, non facendo la disposizione citata alcun riferimento ad un principio maggioritario nell’ammettere la possibilità di deroga statutaria ai quorum deliberativi legali: essa, infatti, stabilisce che «Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo l’assemblea si riunisce presso la sede sociale ed è regolarmente costituita con la presenza di tanti soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale e delibera a maggioranza assoluta e, nei casi previsti dai numeri 4) e 5) del secondo comma dell’articolo 2479, con il voto favorevole dei soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale» (l’enfasi è di chi scrive). A ciò si aggiunga la possibilità di attribuire ai singoli soci particolari diritti di veto in relazione all’amministrazione della società e alla distribuzione degli utili ai sensi dell’art. 2468, terzo comma, cod. civ. (di cui si dirà a breve). La soluzione appena proposta, ad ogni modo, non è pacifica in dottrina, sicché, per una panoramica completa sul problema, pare opportuno rinviare a C.A. Busi, Assemblea e Decisioni dei Soci nelle Società per Azioni e nelle Società a Responsabilità Limitata, cit., pp. 948-960; P.M. Sanfilippo, Problemi disciplinari relativi all’adozione del metodo assembleare, in A.A. Dolmetta e G. Presti (a cura di), S.r.l. – Commentario, cit., pp. 833 s.; e Consiglio nazionale del Notariato, I quorum assembleari della s.r.l. e la loro derogabilità, Studio di Impresa n. 119-2011/I, in Notariato, 2011, pp. 20-37 <https://www.notariato.it/sites/default/files/119-11-i.pdf> ultimo accesso il 23 novembre 2020.

[19] La giurisprudenza maggioritaria, infatti, pare ammettere che, a meno che lo statuto non disponga in senso contrario, la clausola che preveda un determinato quorum deliberativo rafforzato possa essere modificata secondo le maggioranze “non rafforzate” previste dalla legge o dallo statuto per le altre delibere. Si v., ad es., Trib. Milano, 8 marzo 2007, in Giurisprudenza Italiana, fasc. 12, 2007, p. 2773-2775, secondo cui «La clausola statutaria che, in una società a responsabilità limitata, prevede la maggioranza rafforzata dei 4/5 del capitale per l’approvazione di deliberazioni di aumento del capitale sociale può essere modificata, al pari di ogni altra clausola statutaria ed in assenza di una disciplina pattizia ad hoc, con le maggioranze di legge» (così massimata a p. 2773). Allo stesso modo, v. anche Trib. Ascoli Piceno, 12 aprile 2014, in Il Caso, 2014 <http://mobile.ilcaso.it/sentenze/ultime/10330> ultimo accesso il 12 novembre 2020; e, ante riforma del 2003, Trib. Roma, 20 novembre 2001, in Gius, fasc. 10, 2002, p. 1088.

[20] A meno di non prevedere che, in caso di insediamento di un amministratore unico, spetti al socio di minoranza indicarlo o nominarlo.

[21] Il problema non si pone, ovviamente, nel caso non infrequente in cui il socio o i soci di maggioranza non siano interessati a gestire la società in prima persona ma esclusivamente a trarne un profitto: essi, allora, affideranno la gestione esclusivamente alla minoranza, limitandosi ad assicurarsi la distribuzione degli utili eventualmente generati ed una vigilanza sulla corretta gestione dell’impresa attraverso l’organo di controllo.

[22] A riguardo, si v. già A. Santus e G. De Marchi, Sui «particolari diritti» del socio nella nuova S.r.l., in Rivista del Notariato, fasc. 1, parte I, 2004, p. 82, secondo i quali la possibilità di prevedere già nello statuto detti diritti particolari determina un inevitabile “tramonto” dell’utilizzo dei patti parasociali nelle S.r.l.

[23] In tal senso, interrogandosi sulla configurabilità di diritti particolari “atipici”, A. Santus e G. De Marchi, ibidem, p. 92). In arg., si v. anche G. Marasà, La tutela dei soci di S.r.l. nei confronti degli altri soci tra diritto di veto e diritto di recesso, in Aa. Vv., La Riforma del Diritto Societario Dieci Anni Dopo, Giuffrè, 2015, p. 225, che giunge alle medesime conclusioni in relazione all’attribuzione di diritti di veto in capo al socio che esulino dai temi dell’amministrazione o della distribuzione degli utili, ritenendoli inammissibili: secondo l’A., «Il diritto di veto, come diritto particolare del socio, potrebbe essere previsto anche in termini assai ampi e, quindi, investire, ad esempio, tutte le delibere di modifica statutaria oppure (o anche) tutte le decisioni di competenza dei soci, a condizione che si tratti di delibere o decisioni riconducibili alle materie dell’art 2468, co. 3, sia pure latamente inteso». Per una panoramica completa sui diversi diritti particolari configurabili dall’autonomia statutaria, rinvio a Consiglio nazionale del Notariato, I diritti particolari del socio – Ambito oggettivo di applicazione e fattispecie, Studio n. 242-2011/I, in Notariato, 2011, passim e spec. pp 1-15 <https://www.notariato.it/sites/default/files/242-11-i.pdf> ultimo accesso il 23 novembre 2020.

[24] A riguardo, si v. Consiglio nazionale del Notariato, Diritti particolari sugli utili nella s.r.l.: le clausole dell’atto costitutivo, Studio n. 48-2016/I, in Notariato, 2016 <https://www.notariato.it/sites/default/files/48-2016-I.pdf> ultimo accesso il 23 novembre 2020.

[25] Le clausole citate sono state oggetto della relazione – nell’ambito della stessa iniziativa “Cinque Casi di diritto Societario” – dedicata a “Conflitto tra soci e rischio di paralisi societaria”e relativo alla problematica della gestione preventiva di un conflitto tra soci e di una conseguente paralisi societaria.

[26] Nonostante esuli dallo scopo del presente scritto lo specifico esame delle tecniche redazionali delle clausole citate, pare comunque necessario precisare che le stesse non potranno prescindere dal principio dell’equa valorizzazione del prezzo in relazione alla partecipazione dismessa. In tal senso, si v. recentemente App. Roma, sez. II, 3 febbraio 2020, n. 782, in Diritto Bancario Giurisprudenza, 2020 <https://www.dirittobancario.it/giurisprudenza/societa/cessione-di-partecipazioni-sociali/confermata-appello-la-validita-delle-clausole-antistallo> ultimo accesso il 23 novembre 2020; nonchéTrib. Milano, sez. VIII, 22 dicembre 2014, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 4, parte II, 2016, p. 899, con nota di L. Botti, Clausola di “covendita forzata” e “drag-along”, pp. 905 ss.; pubbl. anche Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 1, parte II, 2016, p. 84, con nota di E. Spolidoro, La contrattazione delle condizioni di introduzione, nello statuto della società a responsabilità limitata, delle clausole che comportano il disinvestimento della partecipazione dei soci., pp. 92 ss.;e Trib. Milano, 1° aprile 2008, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, parte II, 2009, p. 1029, con nota di L. Fabbrini, Validità delle clausole statutarie di drag along, pp. 1034 ss. Sul punto, e per una panoramica più approfondita sul tema, si v. ancheE. Timpano, Le clausole di covendita, fasc. 2, 2019, pp. 465 ss.; L. De Matteis, La clausola di trascinamento inserita nello statuto di una società a responsabilità limitata e criteri redazionali, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 4, parte I, 2017, pp. 639 ss.; D. Scarpa, Clausole di trascinamento di partecipazione societaria tra struttura e limiti, in Giustizia Civile, fasc. 1, 2013, pp. 41 ss.; N. De Luca, Validità delle clausole di trascinamento (“drag-along”), in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 2, parte I, 2009, pp. 174 ss.; P. Divizia, Clausole statutarie di covendita e trascinamento, in Notariato, fasc. 2, 2009, pp. 157 ss.; e, infine, a livello di prassi notarile, Consiglio Notarile Milano, Massima n. 88: Clausole statutarie disciplinanti il diritto e l’obbligo di “covendita” delle partecipazioni, in Consiglio Notarile di Milano <https://www.consiglionotarilemilano.it/documenti-comuni/massime-commissione-società/88.aspx> ultimo accesso il 23 novembre 2020

[27] A riguardo, si v. già M. Ventoruzzo, Responsabilità degli amministratori di società per azioni nei confronti della società: le principali novità della riforma (nota a Cass. civ., sez. I, 29 agosto 2003, n. 12696), in Rivista dei Dottori Commercialisti, fasc. 2, 2004, p. 375, il quale sottolinea che «in una società «chiusa», non essendo sempre facile cedere a terzi, a condizioni convenienti, una partecipazione di minoranza, la promozione di un’azione di responsabilità in nome e per conto della società potrebbe rappresentare un efficace strumento di reazione a condotte illecite degli amministratori e del gruppo di controllo; senza peraltro considerare che, il maggiore coinvolgimento che spesso caratterizza il socio di minoranza di una società chiusa rispetto al piccolo azionista di una società quotata, potrebbe di per sé facilitare il ricorso all’azione sociale di responsabilità. In ogni caso, appare utile ricordare questa disposizione a coloro i quali, in qualità di consulenti giuridici, si apprestano a modificare gli statuti alla luce della c.d. riforma Vietti o, più in generale, assistano un cliente nella compravendita di partecipazioni sociali. La norma in esame, infatti, può attribuire alle minoranze un incisivo strumento di reazione a comportamenti ritenuti scorretti di amministratori e (indirettamente) soci di maggioranza, strumento del quale – a seconda della posizione tutelata – si può voler assicurare la disponibilità e l’efficacia o, al contrario, limitare l’utilizzo tramite un opportuno innalzamento della soglia necessaria per l’esercizio dell’azione».

[28] Ad es., individuando le formalità da compiere per la consultazione dei libri sociali, sancendo l’obbligo di sottoscrivere un accordo di riservatezza in caso di consultazione dei documenti relativi all’amministrazione, sancendo il diritto (pur dato ormai per pacifico) di estrarre copia dei documenti consultati; etc.: così N. Abriani, Controllo individuale del socio e autonomia contrattuale nella società a responsabilità limitata, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 2, parte I, 2005, pp. 155 ss. e spec.162-164.

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