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Approfondimenti

Le azioni delle banche non quotate: problematiche e possibili soluzioni

10 Luglio 2015

Avv. Massimo Cerniglia, coordinatore area legale nazionale Federconsumatori

Di cosa si parla in questo articolo

1. Lo scenario in cui si è realizzato negli anni passati la negoziazione e il collocamento delle azioni delle banche non quotate

Nel corso del decennio che va dall’inizio alla fine degli anni 2000, nel nostro Paese si è manifestata una notevole dinamicità del mercato azionario delle banche non quotate.

Si è trattato, in particolare, di titoli azionari emessi e collocati, o anche solo negoziati da casse di risparmio e da banche popolari.

I suddetti istituti di credito, prima dell’inizio della crisi economico-finanziaria, che si è manifestata nel nostro Paese dal 2008, avevano ottenuto notevoli risultati economici ed i bilanci confermavano il trend positivo.

I clienti di tali banche, che molto spesso rappresentavano dei punti di riferimento con il territorio di appartenenza, grazie anche al connubio con le relative fondazioni bancarie che erogavano importanti somme alle diverse realtà del territorio, erano invogliati ad investire nei titoli azionari degli stessi istituti di credito anche in quanto la rete di vendita li descriveva come prodotti finanziari assolutamente sicuri e remunerativi, come e più dei titoli di Stato.

In questa fase, quindi, il vistoso ampliamento della base associativa, realizzatosi tramite la vendita delle azioni delle banche non quotate, è stato realizzato in massima parte in modo concordato tra risparmiatori e intermediari finanziari.

In realtà come Ferrara e Bolzano, ove esistono due importanti Casse di Risparmio, si è pervenuti alla formazione di una base di azionisti pari a circa 25.000 – 30.000 risparmiatori per ciascun istituto.

In questa fase, quindi, prima della crisi economico-finanziaria, vi era una consonanza di interessi tra le banche non quotate e i risparmiatori che erano spinti ad acquistare le azioni bancarie.

Verso la fine del primo decennio del 2000 tale situazione è cominciata a mutare in quanto le banche non quotate del territorio, o anche di livello nazionale, hanno cominciato a faticare per mantenere livelli di redditività e per raggiungere apprezzabili utili.

Si è cominciato, così, ad assistere a una strategia diversa da parte delle banche: prima gli istituti di credito ed i risparmiatori marciavano insieme verso il miraggio del bene comune, poi le banche hanno cominciato a perseguire esclusivamente i propri interessi, che erano quelli di ottenere il massimo consenso per la sottoscrizione di aumenti di capitale deliberati ripetutamente, molto spesso non già per rafforzare il patrimonio, ma per coprire i buchi causati da operazioni spericolate e, comunque, poco avvedute.

Le banche, quindi, hanno cominciato a cambiare atteggiamento rispetto alla questione dell’azionariato diffuso e hanno spinto i risparmiatori, con ogni mezzo, ad investire nei loro titoli azionari.

E lo hanno fatto, come si diceva, con ogni mezzo: promettendo migliori condizioni di tassi sugli affidamenti; subordinando la concessione di affidamenti e mutui alla sottoscrizione di azioni; concedendo prestiti esclusivamente per l’acquisto delle azioni e con altre modalità poco corrette, di cui ha dato notizia la stampa.

2. L’attuale situazione del mercato delle azioni delle banche non quotate

A seguito delle massicce vendite di azioni non quotate ai risparmiatori retail e della difficoltà in cui si sono trovate molte banche non quotate, alcune delle quali sono state oggetto di provvedimento di commissariamento straordinario (si veda la Carife di Ferrara e la Tercas di Teramo), la situazione di liquidità propria di tali azioni, che, comunque, sin dall’epoca in cui non vi era la crisi economica e finanziaria non era del tutto percepibile, ha portato ad un sistema di scambi dei titoli non quotati completamente paralizzato.

Per effetto di ciò, i risparmiatori sono rimasti bloccati anche con ingenti capitali in considerazione del fatto che le azioni non quotate non avevano più un mercato di scambio efficiente e quindi sono diventate pressoché incommerciabili.

Alcune delle banche non quotate hanno addirittura stabilito che non si potessero mettere in vendita più di 50 azioni alla volta e, comunque, il periodo di validità della richiesta di vendita veniva fissato in 18-24 mesi.

Ma anche con tali misure, il blocco della commerciabilità delle azioni non quotate è stato assoluto, con la conseguenza che decine di migliaia di azionisti hanno dovuto rinunciare a liquidare i propri risparmi per poter indirizzare le loro risorse economiche ad attività produttive e redditizie.

Per effetto di tale situazione, una parte molto rilevante dell’economia di città come Vicenza, Treviso, Ferrara e Teramo si è quasi paralizzata.

A nulla sono valse le proteste e le denunce dei risparmiatori, in quanto le banche non quotate, che già si trovavano in difficoltà, non hanno potuto mettere in atto nessun valido intervento volto a rendere liquido o, quanto meno, più liquido il mercato dei propri titoli azionari.

Ma non basta.

A Teramo gli azionisti della Cassa di Risparmio di Teramo, a seguito dell’intervento del Fondo Interbancario e della Banca Popolare di Bari, che ha rilevato la Cassa, si sono visti azzerare il valore delle proprie azioni con la conseguente perdita di gran parte dei risparmi delle famiglie a cui negli anni passati erano state vendute centinaia di migliaia di azioni.

Tali vendite sono avvenute con sistemi commerciali che hanno indotto centinaia di risparmiatori ad agire in giudizio, con un contenzioso che è appena iniziato e che si preannuncia dirompente.

A Ferrara i 28.000 clienti della Carife stanno attendendo le decisioni del Fondo Interbancario sul destino della Cassa, ma anche per loro si profila un azzeramento del valore delle azioni.

Dato comune ai collocamenti passati è che le azioni sono state vendute massicciamente anche e soprattutto a risparmiatori con un profilo di rischio basso o medio-basso e, al fine di operare ugualmente la vendita di prodotti rischiosi, quali devono essere considerate le azioni non quotate, si è fatto sottoscrivere in massa clausole di inadeguatezza, molto spesso, però, inefficaci in quanto non contenenti in modo valido l’indicazione dei motivi di inadeguatezza stessa.

Ciò è avvenuto per le negoziazioni pre MiFID e, pertanto, per le operazioni in cui era applicabile il vecchio articolo 29 del Regolamento Consob del 1998.

Per le negoziazioni post MiFID molte banche hanno invece utilizzato tecniche di vendita massiccia parimenti illegittime, di cui parleremo in seguito diffusamente.

3. La Comunicazione Consob del 2 marzo 2009: la sua applicabilità alle azioni delle banche non quotate considerate titoli illiquidi e la decisione dell’Ombudsman del 30 luglio 2014

Il 2 marzo del 2009 la Consob ha emanato la Comunicazione n. 9019104 relativa ai doveri dell’intermediario nella distribuzione di prodotti finanziari illiquidi.

Il documento si inserisce nell’ambito delle misure di c.d. “livello tre” sul regolamento intermediari con cui la Consob fornisce orientamenti interpretativi di dettaglio funzionali alla concreta applicazione del nuovo sistema normativo di derivazione comunitaria.

La Comunicazione tratta della distribuzione alla clientela al dettaglio di prodotti finanziari illiquidi, che secondo la Consob sono quelli che determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole, a condizioni di prezzo significative, ossia tali da riflettere direttamente o indirettamente una pluralità di interessi in acquisto ed in vendita.

Il primo problema che bisogna affrontare è quello dell’applicabilità di quanto stabilito dalla predetta Comunicazione Consob anche a titoli come le azioni non quotate in Borsa in quanto titoli illiquidi

A mio parere, esaminando attentamente la Comunicazione, il problema non si pone in quanto le azioni non quotate rientrano nella definizione di titoli illiquidi delineata dalla Comunicazione e, cioè, di prodotti che determinano per l’investitore ostacoli o limitazioni allo smobilizzo entro un lasso di tempo ragionevole a condizioni di prezzo significative, ossia tali da riflettere, direttamente o indirettamente, una pluralità di interessi di acquisto e di vendita.

D’altra parte la Consob nel suo provvedimento sostiene che la condizione di “liquidità” potrebbe essere garantita dall’impegno dello stesso intermediario al riacquisto secondo criteri e meccanismi prefissati e concreti come quelli che hanno condotto al princing del prodotto nel mercato primario.

Sempre nella Comunicazione, quando si parla di prodotti illiquidi, si fa riferimento a titolo esemplificativo, ma non esaustivo, alle obbligazioni bancarie, alle polizze assicurative e ai derivati OTC, ovvero negoziati “over the counter”.

Si consideri, inoltre, che le due decisioni dell’Ombudsman bancario del 30 luglio 2014 e del 30 aprile 2015 non ci sono proprio poste il problema dell’applicabilità della Comunicazione Consob del 2009 alle azioni illiquide della Carife e della Sparkasse di Bolzano, ma sono scese direttamente al merito della questione e nel caso della Carife hanno ritenuto che la stessa banca non avesse rispettato la Comunicazione del 2009, mentre nel caso della Sparkasse è stato ritenuto, sia pure erroneamente, che la banca aveva di contro rispettato la stessa Comunicazione Consob.

Ma vediamo più da vicino quelle che sono le disposizioni stabilite dalla Comunicazione Consob del 2009 per il collocamento o la negoziazione di titoli illiquidi.

In tema di prodotti finanziari illiquidi il diligente assolvimento degli obblighi informativi ex art. 21, comma 1, del Testo Unico Finanziario impone all’intermediario una specifica informativa in primo luogo ex ante, consistente nella scomposizione del complessivo esborso di capitale tra il c.d. fair value del titolo ed costi dell’operazione, precisazione del valore di smobilizzo dell’investimento nell’istante immediatamente successivo all’operazione di acquisto, specificazione delle condizioni di smobilizzo evidenziando maggiori difficoltà, tempi e costi connessi al livello di illiquidità, precisazione della circostanza per cui l’unica fonte di liquidità sia lo stesso intermediario negoziatore, dettagliando le regole di princing applicabile, nonché offrire un set informativo che confronti il prodotto illiquido con altri prodotti semplici, noti, liquidi, a basso rischio, con analoga durata e larga diffusione. La normativa di settore impone anche un obbligo di informativa ex post, consistente nell’invio di una rendicontazione periodica che specifichi il fair value aggiornato ed il presumibile valore di realizzo sulla base delle reali condizioni di smobilizzo.

Secondo l’ormai nota decisione dell’Ombudsman bancario del 30 luglio 2014, se il set informativo predisposto dell’intermediario (vale a dire il prospetto informativo, la nota di sintesi, la nota informativa e l’eventuale scheda prodotto) non prevede tali informazioni, non si possono ritenere diligentemente assolti gli specifici obblighi informativi imposti dalla normativa per i prodotti finanziari illiquidi.

Sempre in base alla suddetta decisione dell’Ombudsman bancario l’inserimento nell’ordine di acquisto di clausole con le quali il cliente confessi di essere consapevole, in particolare, dei fattori di rischio relativi all’investimento e di conoscere ed accettare, senza riserve, le condizioni e le modalità dell’offerta contenute nel menzionato prospetto informativo, è inefficace al fine di configurare un diligente adempimento in merito all’obbligo di fornire un’informativa trasparente e particolarmente dettagliata, come imposto ex lege per i prodotti illiquidi.

Infatti, un rinvio per relationem ad un set informativo, non consegnato al risparmiatore e, comunque, privo delle informazioni previste dalla Comunicazione Consob del 2009, non assolve agli obblighi informativi di legge.

In base alla decisione dell’Ombudsman, l’inadempimento agli obblighi informativi fa sì che la specifica operazione di compravendita dei titoli illiquidi non è da considerarsi validamente perfezionata, con l’obbligo della banca alla restituzione delle somme impiegate per l’acquisto dei titoli stessi.

4. La necessità che le azioni non quotate siano negoziate o collocate solamente a investitori con profilo di rischio alto o quanto meno medio alto in quanto titoli rischiosi

Le azioni bancarie non quotate devono necessariamente, per le loro caratteristiche, essere considerate come titoli con un profilo di rischio alto o, quantomeno, medio-alto.

Non vi è dubbio, infatti, che titoli illiquidi, per i quali vi è una potenziale difficoltà di liquidazione, non possono che essere riservati ad investitori con un profilo di rischio alto o medio-alto.

Le banche non quotate sono state sempre coscienti di ciò. Tant’è vero che prima dell’introduzione della MiFID, in vigenza della normativa di inadeguatezza di cui all’art. 29 del vecchio Regolamento Consob del 1998, gli istituti di credito non quotati, come si diceva, per vendere le azioni anche a soggetti con profilo di rischio basso o medio-basso, procedevano in via generalizzata a segnalare l’inadeguatezza ed a far sottoscrivere l’espressa autorizzazione ad eseguire comunque l’operazione.

Tale modalità di vendita ha manifestato in alcuni casi, si veda il caso Tercas, un vero e proprio abuso di diritto in quanto la segnalazione di inadeguatezza è stata effettuata in modo generalizzato a tutti i risparmiatori con profilo di rischio basso o medio-basso.

Per tale motivo, nonché per la mancata indicazione degli specifici motivi di inadeguatezza si è aperto un vasto contenzioso presso il Tribunale di Teramo, con il quale si chiede la condanna della banca all’integrale restituzione delle somme investite.

5. La strategia di vendita delle azioni illiquide post MiFID

Andiamo ora a trattare l’argomento, invero assai interessante, relativo alla strategia di vendita adottata da alcune banche per collocare agli investitori con profilo di rischio basso o medio-basso le azioni non quotate.

Vogliamo riferire della strategia di vendita delle azioni non quotate di una banca, che per riservatezza non nomineremo.

Ebbene, abbiamo potuto constatare che, in particolare, in occasione dell’ultimo aumento di capitale avvenuto qualche anno fa, la Banca in questione, avendo una forte necessità di collocare tutte le azioni emesse, ha così operato.

Si premette che la Banca, sin dall’introduzione dell’ultimo Regolamento Consob di fine 2007, che ha recepito le Direttive MiFID, ha esteso in via gratuita a tutti i propri clienti il servizio di consulenza.

Per tale motivo, l’istituto di credito, tanto nella negoziazione, quanto nel collocamento dei titoli, era tenuto ad effettuare la valutazione di adeguatezza.

Per il collocamento delle proprie azioni non quotate, effettuato per i clienti con un profilo di rischio basso o medio-basso, la valutazione di adeguatezza era negativa, per cui la Banca nella raccomandazione personalizzata dava indicazione di “evitare” l’acquisto dei titoli azionari di propria emissione, senza però precisare i motivi dell’inadeguatezza.

Pertanto risultava, ad esempio, che alle 15 e 28 minuti la Banca, all’esito aveva emesso una raccomandazione, con la quale invitava il cliente ad evitare l’acquisto, salvo poi, dopo uno o due minuti, far risultare che era stato direttamente il cliente a richiedere l’acquisto inadeguato, in modo da passare “formalmente” dal regime di adeguatezza al regime di c.d. “execution only”.

Ebbene, ci chiediamo se tale procedura possa essere ritenuta rispettosa della legge o non sia stata posta in violazione o in elusione della legge.

A me sembra che non vi sia dubbio sul fatto che una simile procedura sia illegittima ed elusiva del dettato normativo per le seguenti ragioni.

Prima della MiFID e, quindi, dell’art. 39 del Regolamento Consob del 2007 vigeva la normativa di cui al citato art. 29 del Regolamento Consob del 1998.

In base a tale previgente normativa, se l’intermediario finanziario riteneva che un’operazione fosse inadeguata rispetto al profilo del risparmiatore per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione, era obbligato a segnalarlo per iscritto al cliente, indicando specificatamente le ragioni dell’inadeguatezza, e poteva eseguire l’operazione solo se otteneva dall’investitore una seconda sottoscrizione per autorizzazione a dar corso, comunque, alla negoziazione.

In tal modo l’intermediario finanziario era esente da ogni responsabilità, se l’operazione si fosse rivelata dannosa per l’investitore.

Con l’art. 39 del Regolamento Consob del 2007, che ha recepito la MiFID, l’operazione reputata non adeguata non può in alcun modo essere eseguita dall’intermediario, a differenza di ciò che avveniva in passato per quanto abbiamo detto, con la conseguenza che il livello di protezione per il cliente è, quindi, massimo, andando contro una sua esplicita volontà, in funzione dell’esigenza di tutelare il risparmio quale bene costituzionalmente protetto (si veda F. Sartori, “Le regole di adeguatezza e i contratti di borsa: tecniche normative, tutele e prospettive MiFID” in Rivista Diritto Privato, 2008 pag. 25 ed, in senso conforme, V. Santocchi, “Le valutazioni di adeguatezza e di appropriatezza nei rapporti contrattuali fra intermediari e cliente”, in I contratti del mercato finanziario, a cura di E. Gabrielli e R. Lener, I, Torino, 2011, pag. 281 e ss.).

È allora evidente che, se con la nuova regola dettata dall’art. 39 l’intermediario è tenuto ad andare contro l’esplicita volontà del cliente, pur se questi ugualmente voglia compiere l’operazione, non sia ipotizzabile che l’intermediario consenta all’investitore di rinunciare alle garanzie proprie della consulenza e richiedere lui stesso l’operazione, come avvenuto nel caso di specie.

È evidente che, operando con una tale strategia, l’intermediario finanziario aggira palesemente l’art. 39 del Regolamento Consob del 2007, violando altresì l’art. 21 del Testo Unico Finanziario, nel quale si stabilisce che l’intermediario si deve comportare con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati.

Ora, è evidente che non sia certo nel miglior interesse del cliente comprare un prodotto finanziario inadeguato, ma sia invece nell’esclusivo interesse commerciale della Banca vendere sempre e comunque i propri titoli, anche a soggetti che avevano una propensione al rischio bassa o prudente.

D’altra parte è necessario precisare che una procedura del genere potrebbe essere forse tollerata qualora si trattasse di un caso isolato, ma nel caso della Banca di cui parliamo abbiamo accertato che tale procedura è stata pressoché generalizzata e standardizzata.

È evidente che, per provare tale violazione generalizzata della legge nei giudizi che eventualmente potranno essere proposti dai risparmiatori nei confronti della Banca, si chiederà di ordinare la produzione di tutti gli ordini per l’acquisto delle azioni effettuate da tutti i clienti dell’istituto di credito nei due mesi precedenti e successivi la singola negoziazione.

Con tale mezzo istruttorio si potrà dimostrare la palese e preordinata elusione compiuta dalla Banca, elusione che potrebbe investire anche profili non strettamente civilistici.

Ma rispetto alla strategia di vendita massiccia delle proprie azioni da parte della Banca in questione, ci chiediamo se le modalità di vendita di azioni non quotate in Borsa, come quelle in questione, possano essere compatibili con la normativa della c.d. execution only.

Ci chiediamo, cioè, se la Banca avrebbe potuto vendere le proprie azioni non quotate con le suddette modalità.

Orbene, come noto, l’art. 43 del Regolamento Consob del 2007 stabilisce che gli intermediari possono prestare i servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissione ordini, senza che sia necessario ottenere le informazioni per procedere alla valutazione di adeguatezza o appropriatezza, quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:

  1. i suddetti servizi sono connessi ad azioni ammesse alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un mercato equivalente in un paese terzo;
  2. il servizio è prestato ad iniziativa del cliente;
  3. il cliente è stato informato che l’intermediario non è tenuto a valutare l’appropriatezza e che pertanto l’investitore non beneficia della protezione offerta dalle relative disposizioni;
  4. l’ Intermediario rispetta gli obblighi in materia di conflitti d’interesse.

In base a quanto sopra, sembrerebbe potersi sostenere che le azioni non quotate in un mercato regolamentato, come le azioni bancarie di cui abbiamo trattato, non possono essere negoziate in un regime di “execution only”, per cui la Banca che ha utilizzato tale modalità avrebbe commesso una violazione di legge.

6. Conclusioni

Concludiamo solamente dicendo che la questione delle azioni non quotate è veramente rilevante in quanto coinvolge ormai centinaia di migliaia di risparmiatori, che vanno ad aggiungersi alle centinaia di migliaia di risparmiatori coinvolti nella vicenda del c.d. “risparmio tradito”, in un nuovo e quanto mai preoccupante capitolo.

Di cosa si parla in questo articolo

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