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La reticenza dell’assicurato sulla consistenza del rischio e il successivo sinistro: chiarimenti della Cassazione

26 Febbraio 2018

Avv. Andrea Scafidi, Legal Director, DLA Piper

In base a consolidata giurisprudenza, la reticenza dell’assicurato in sede di rappresentazione del rischio legittima il ricorso da parte dell’assicuratore ai rimedi previsti dall’art. 1892 c.c.[1] (annullamento del contratto di assicurazione ovvero mancato pagamento dell’indennizzo) quando sia accertata la presenza di tre condizioni cumulative:

(i) che la rappresentazione del rischio da parte dell’assicurato sia inesatta o reticente;

(ii) che essa sia stata resa con dolo o colpa grave[2];

(iii) che la reticenza sia stata determinante nella formazione del consenso dell’assicuratore a stipulare il contratto.

Ne consegue che non ogni reticenza si traduce nel diritto dell’assicuratore di annullare la polizza o di rifiutare il pagamento del premio, ma solo quella che, ove nota allo stesso assicuratore, lo avrebbe determinato a una diversa decisione in ordine al contratto.

Poniamo, ad esempio, che un assicurato abbia stipulato una polizza contro gli infortuni omettendo volontariamente o con colpa grave, in sede di rappresentazione del rischio, di informare l’assicuratore circa la sua pratica abituale di certe attività pericolose legate ad uno “sport estremo”.

Poniamo inoltre che, durante il corso di validità della polizza, l’assicuratore venga a conoscenza della reale esposizione al rischio taciuta dall’assicurato. In questo caso, l’assicuratore potrà legittimamente chiedere l’annullamento della polizza ex art. 1892, comma 1, c.c., oppure (in presenza di un infortunio già verificatosi) rifiutarsi di corrispondere l’indennizzo ai sensi del successivo comma 3, sempre che sia in grado di dimostrare – tra l’altro – che non avrebbe mai concluso quel contratto (o lo avrebbe concluso a condizioni diverse) se l’assicurato avesse rappresentato correttamente le circostanze di cui si è detto.

Il principio appare di lineare applicazione in tutti quei casi in cui il sinistro verificatosi durante la vigenza della polizza, in relazione al quale l’assicuratore rifiuti il pagamento dell’indennizzo, rappresenta una conseguenza diretta della reale consistenza del rischio celata dall’assicurato.

Nel nostro esempio concreto, il meccanismo probatorio che si è appena descritto non darà luogo a particolari incertezze applicative nell’ipotesi in cui l’assicurato subisca un infortunio fisico proprio mentre è impegnato nella pratica dello sport estremo che si è guardato dal menzionare nel questionario-proposta compilato prima di stipulare la sua polizza.

Che cosa succede, per contro, nell’ipotesi in cui il successivo sinistro non appaia collegato causalmente ai fatti taciuti dall’assicurato con dolo o colpa grave?

Pensiamo, ad esempio, al caso in cui, nel compilare il questionario per la copertura assicurativa della responsabilità professionale derivante dalla propria attività di membro del collegio sindacale di una data società, un professionista ometta di comunicare alla compagnia la circostanza di avere già ricevuto un avviso di garanzia, che lo informava del suo coinvolgimento in un procedimento penale per ipotesi di reato attinenti alla gestione, da parte della società in questione, di una certa transazione intercompanycon una sua consociata.

L’assicuratore, ignaro della vicenda, emette la polizza RC professionale in favore di quell’assicurato a certe condizioni. Alcuni mesi dopo, il professionista viene citato in giudizio innanzi al Tribunale civile dalla stessa società presso cui ha svolto l’incarico di sindaco, sulla base di addebiti relativi a presunte irregolarità che nulla hanno a che vedere con la transazione intercompany al vaglio del P.M. in sede penale.

Evidentemente, in un caso come questo diventa cruciale stabilire se la normativa richieda o meno – quale ulteriore presupposto necessario affinché la reticenza dell’assicurato assuma rilevanza ai fini previsti dall’art. 1892 c.c. – la configurabilità di un rapporto di causa-effetto tra l’incompleta rappresentazione del rischio assicurando, che ha viziato in modo determinante il consenso prestato dall’assicuratore, e il sinistro occorso in via successiva, in relazione al quale il contraente invoca la copertura assicurativa.

Il tema non è banale. In giurisprudenza, sebbene la Suprema Corte si sia espressa da tempo nel senso che debba ritenersi “ininfluente, ai fini dell’esperibilità dei rimedi di cui all’art. 1892 c.c., ogni questione sulla qualificabilità delle circostanze taciute od inesattamente dichiarate come cause o concause dell’evento”[3], lo scenario della giurisprudenza di merito ha evidenziato negli anni successivi una certa disomogeneità di posizioni.

In materia di assicurazione infortuni e malattie, a fronte di numerose pronunce allineate alla posizione della giurisprudenza di legittimità[4], in certi altri casi i giudici hanno invece ritenuto che le dichiarazioni inesatte o reticenti dell’assicurato in sede di conclusione del contratto possano essere fatte valere dall’assicuratore ai fini dei rimedi previsti dall’art. 1892 c.c. soltanto allorché, oltre alla loro influenza sulla rappresentazione del rischio, sia dimostrabile anche un effettivo collegamento oggettivo tra la situazione celata ed il sinistro concretamente verificatosi[5].

Ultimamente, peraltro, la Corte di Cassazione sembra avere definitivamente sgombrato il campo da incertezze, ribadendo con forza l’interpretazione – senz’altro più convincente – secondo la quale l’assetto probatorio ai fini del venir meno dell’obbligo di prestazione da parte dell’assicuratore non viene modificato dal fatto che un sinistro avvenga per ragioni diverse rispetto alle circostanze precedentemente taciute dall’assicurato in sede di stipulazione della polizza.

In particolare, tale orientamento è stato confermato in occasione di due recenti pronunce della Suprema Corte relative a polizze emesse nel ramo vita.

Così, nel 2015, i giudici di legittimità – nel ricostruire la ratio dell’art. 1892 c.c. in materia di dichiarazioni inesatte o reticenti rese per la stipulazione di una polizza vita a garanzia del rischio di morte – hanno significativamente affermato che tali dichiarazioni non necessariamente presuppongono la consapevolezza, da parte del contraente, di essere affetto dalla specifica malattia che abbia poi dato luogo al sinistro, ma possono essere integrate da qualsiasi circostanza sintomatica del suo stato di salute che l’assicuratore abbia considerato potenzialmente rilevante ai fini della valutazione del rischio, domandandone di esserne informato dal contraente tramite la compilazione di un questionario[6].

Ulteriori interessanti precisazioni sono state fornite dalla Suprema Corte in una successiva ordinanza resa nell’agosto 2017[7], che riteniamo utile esaminare più estesamente in considerazione della particolare chiarezza della sua motivazione.

Il caso riguarda una donna che aveva agito in giudizio nei confronti di una compagnia assicurativa, chiedendo che la stessa fosse condannata ad adempiere al contratto di assicurazione sulla vita (anche qui, per il caso di morte) sottoscritto dal defunto marito alcuni anni prima, in concomitanza con l’acquisto di un immobile e la stipulazione del relativo mutuo ipotecario.

Dopo la morte del marito (avvenuta a causa di un tumore), l’assicurazione si era rifiutata di pagare l’indennizzo in base all’art. 1892 c.c., evidenziando che l’assicurato, al momento della stipula del contratto, aveva fornito “notizie false e/o reticenti circa le proprie condizioni di salute”.

La domanda di manleva della vedova era stata rigettata in primo grado e la Corte d’Appello aveva confermato tale decisione, sulla base della considerazione che dagli accertamenti effettuati in corso di causa era emerso che l’assicurato, all’atto di stipulare la polizza, “era ben consapevole di versare in una condizione sanitaria che non rientrava in quella che era stata riportata nella dichiarazione allegata e sottoscritta nella polizza”, in quanto in quella data l’uomo era già stato sottoposto ad un primo intervento chirurgico.

Con il proprio ricorso in Cassazione, la vedova lamentava che la sentenza della Corte d’Appello avrebbe errato nella parte in cui ha affermato che l’assicurato sapeva di essere portatore di una patologia tumorale nel momento in cui firmò il contratto assicurativo. Al contrario, in tale data egli sarebbe stato convinto di essere in buona salute. Inoltre, il precedente intervento era stato eseguito in regime di day hospital e, all’esito dello stesso, i medici avevano considerato il paziente guarito senza bisogno di alcuna terapia. Solo tre mesi dopo l’attivazione della polizza l’assicurato era venuto a sapere di essere affetto dal carcinoma che lo avrebbe portato alla morte, sulla base di referti istologici successivi al suddetto intervento ambulatoriale.

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione resa dalla Corte d’Appello, rigettando il ricorso della vedova in base all’argomentazione che il giudice di prime cure, nell’applicare l’art. 1892 c.c., aveva valutato del tutto correttamente la sussistenza nel caso di specie delle tre condizioni cumulative relative all’onere probatorio che abbiamo visto in precedenza.

La Suprema Corte ha infatti osservato che il giudice di merito non si era limitato alla generica affermazione per cui l’assicurato non poteva non sapere di essere affetto da una grave malattia quando firmò il contratto. Al contrario, il Tribunale aveva anche verificato che lo stesso assicurato aveva sottoscritto una dichiarazione attestante di non aver subito interventi chirurgici nei cinque anni precedenti (cosa non vera) e che era ben consapevole del fatto che dichiarazioni false o reticenti avrebbero determinato la non operatività della garanzia, compromettendo di conseguenza il diritto al conseguimento della prestazione.

Alla luce di quanto appena esposto, possiamo concludere che ad assumere rilievo a fini probatori, nell’ambito dello scenario in esame, non è la necessità di dimostrare una correlazione causale tra le dichiarazioni dell’assicurato e la produzione del sinistro. Si esige, invece, la prova di un collegamento oggettivo tra la falsità o reticenza di tali dichiarazioni e l’alterata percezione da parte dell’assicuratore del rischio dedotto nel contratto (e dunque l’errore circa l’effettiva maggiore probabilità del verificarsi del sinistro).

La ratio della norma in esame è infatti quella di tutelare l’assicuratore, che deve essere posto in condizione di conoscere con precisione la situazione dell’assicurato, per misurare correttamente il peso del rischio che assume con il contratto e stabilire il premio che gli deve essere corrisposto.

In un’ottica più generale, questo permette alle imprese di assicurazione di valutare in modo appropriato e anticipato i rischi delle singole operazioni di assicurazione e, di conseguenza, del complesso dei contratti di assicurazione che concludono, così svolgendo correttamente la loro importante funzione – di rilevanza pubblicistica – di riallocazione dei rischi del sistema (cioè di ripartizione fra un numero elevato di soggetti delle probabilità che un certo sinistro si avveri[8]).

Come si è accennato, l’orientamento appena descritto è stato condivisibilmente ribadito dalla Cassazione in tema di polizze vita. Peraltro, non sembrano sussistere motivi ostativi all’estensione del principio della non necessarietà di un nesso eziologico tra circostanze taciute dall’assicurato e successivo sinistro anche alle ipotesi di applicazione del disposto dell’art. 1892 c.c. a casi in cui ad essere oggetto di disputa sia la garanzia assicurativa astrattamente offerta da una polizza operante nel ramo danni.

Ci riferiamo alle assicurazioni contro gli infortuni, ma anche, in un orizzonte più ampio, alle polizze in materia di responsabilità professionale e di responsabilità medica, alle c.d. polizze Directors & Officers (D&O) a copertura delle responsabilità degli organi sociali, alle polizze scoppio e incendio a tutela dei fabbricati, e così via.

[1] Ai sensi dell’art. 1892 c.c. (“Dichiarazioni inesatte e reticenze con dolo o colpa grave“): “1. Le dichiarazioni inesatte e le reticenze del contraente, relative a circostanze tali che l’assicuratore non avrebbe dato il suo consenso o non lo avrebbe dato alle medesime condizioni se avesse conosciuto il vero stato delle cose, sono causa di annullamento del contratto quando il contraente ha agito con dolo o con colpa grave. 2. L’assicuratore decade dal diritto d’impugnare il contratto se, entro tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza, non dichiara al contraente di volere esercitare l’impugnazione. 3. L’assicuratore ha diritto ai premi relativi al periodo di assicurazione in corso al momento in cui ha domandato l’annullamento e, in ogni caso, al premio convenuto per il primo anno. Se il sinistro si verifica prima che sia decorso il termine indicato dal comma precedente, egli non è tenuto a pagare la somma assicurata. 4. Se l’assicurazione riguarda più persone o più cose, il contratto è valido per quelle persone o per quelle cose alle quali non si riferisce la dichiarazione inesatta o la reticenza“.

[2] In particolare,la giurisprudenza prevalente ritiene assolto l’onere della prova del dolo o della colpa grave dell’assicurato ai fini dell’art. 1892 c.c. anche mediante il ricorso apresunzioni ex art. 2727 ss. c.c.. In merito, la Cassazione ha precisato che “l’assicuratore può dimostrare con ogni mezzo, non escluse le presunzioni, la consapevolezza, da parte dell’assicurato, del valore determinante della sua dichiarazione fallace per la formazione del consenso; è ammissibile, all’uopo, il ricorso a questionari, proposti all’assicurato per conoscere circostanze rilevanti per la determinazione del rischio, specialmente se contengono l’indicazione che tali circostanze sono essenziali ai fini degli art. 1892 e 1893 c.c.” (Cass. 17.12.2004, n. 23504; nello stesso senso, ex multis, Cass. 10.10.2008, n. 25011; in dottrina, cfr. ROSSETTI, Il diritto delle assicurazioni, 2011, I, Cedam, 889).

[3] Cass. 12.11.1985, n. 5519; conf., tra le altre, Cass. 11.1.1962, n. 23; Cass. 9.2.1987, n. 1373; Cass. 25.5.1994, n. 5115; Cass. 28.6.2005n13918; Cass.11.6.2010, n. 14069; in dottrina, cfr. ROSSETTI, op. cit., 873-874; DIES, Le dichiarazioni inesatte o reticenze del contraente in sede di conclusione del contratto di assicurazione (artt. 1892 e 1893 c.c.): una disciplina obsoleta, in Resp. Civ. Prev., 1997, 538 ss..

[4] Cfr., tra le altre, Trib. Roma 26.5.2008; Trib. Bari 16.1.2014.

[5] Così Trib. Torino, 17.6.1995; conf. Trib. Torino, 25.11.1995; nella giurisprudenza di legittimità, risulta in linea con quest’ultima posizione solo la risalente Cass. 11.10.1956, n. 3514; in dottrina, cfr. VISINTINI, La reticenza nel contratto di assicurazione, in Riv. Dir. Civ., 1971, I, 422.

[6] Cass. 31.7.2015, n. 16284.

[7] Cass. ord. 4.8.2017, n. 19520.

[8] Cfr. SANGIOVANNI, Dichiarazioni inesatte, reticenze e annullamento del contratto di assicurazione, in Assicurazioni, 2-2011, 275 ss..


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